Quanto eri bella Roma - di Roberto Giordano

“Quanto eri bella Roma…”. E’ questo il titolo del presidio svolto da Cgil, Cisl, Uil di Roma e Lazio in Campidoglio, il 6 giugno scorso. Il refrain di Venditti non voleva significare che Roma fosse bella fino all’avvento della giunta Raggi, ci mancherebbe. Anzi, per comprendere appieno il declino della capitale, dal punto di vista dei blocchi di potere rimasti invariati nel tempo, bisogna risalire quanto meno alla giunta Veltroni e al tanto sbandierato “modello Roma”. Ma l’immobilismo dell’attuale governo capitolino ha raggiunto, nel corso dei due anni successivi alle vittoria del M5S, un livello assolutamente allarmante. La crisi economica esplosa nel 2007, il debito monstre (13 miliardi di euro), il declino dei servizi pubblici principali (rifiuti, trasporti, servizi sociali) ci consegnano un quadro istituzionale grave, al quale non si è data alcuna risposta.

Roma è stata la locomotiva dello sviluppo economico per diversi lustri. Oggi sembra, sempre per usare le parole di un altro cantautore romano, “una cagna in mezzo ai maiali”. Una città che dietro il paravento della partecipazione – altro grande bluff del M5S – in realtà non riesce a tessere alcuna relazione strutturata con la miriade di rappresentanze effettive che si muovono nel territorio, sindacati compresi.

Molto spesso l’approccio mediatico ai problemi di Roma muove dalle questioni legate al decoro urbano, alla condizione delle strade. No, non sono questi i problemi veri che abbiamo davanti, anche se c’è una condizione di degrado visibile. I problemi sono strutturali e urgenti. Cominciando proprio dal debito. In campagna elettorale la proposta di ricontrattare il debito con Cassa depositi e prestiti (che, com’è noto, raccoglie e gestisce i risparmi di milioni di cittadini) era diventato un mantra di tutti, anche del M5S. Ora sono al governo della città e del paese, quali passi sono stati fatti in questa direzione? Nessuno. La sola ricontrattazione degli interessi (oggi al 5,5%) consentirebbe di recuperare e investire circa 200 milioni di euro l’anno.

Ma non è questa la sola inazione della sindaca romana. Vale lo stesso per il concordato di Atac, in odore di privatizzazione (a novembre si svolgerà il referendum promosso dai radicali in questa direzione); per l’incapacità di sviluppare una proposta sui rifiuti in grado di contemplare una reale risposta di economia circolare; per il definanziamento delle politiche sociali, in una città dove le periferie sono allo stremo e le vecchie e nuove povertà hanno subito un rapido incremento; per l’incapacità di garantire un sistema di appalti pubblici quanto meno con la clausola sociale e servizi adeguati; per la mancanza di un progetto di riordino della macchina capitolina nel suo complesso – partecipate comprese – che dia risposte coerenti ai reali bisogni della città.

L’elenco sarebbe ancora lungo, ma riteniamo siano sufficienti gli spunti offerti. C’è poi una questione, apparentemente meno rilevante, ma che rischia di diventare centrale se combinata con le politiche nazionali sui migranti. Roma è la città con il maggior numero di richiedenti asilo o protezione internazionale d’Italia, circa 13mila, lo 0,3% della popolazione residente nella provincia. Stiamo parlando di quegli uomini, quelle donne, quei bambini che vivono nei centri di accoglienza (Cas o Sprar che siano), e che attendono il riconoscimento del loro status, per poi avviare quel percorso d’inclusione sociale, lavorativa, scolastica che soltanto in una minoranza di casi riesce a concretizzarsi.

Un senso comune completamente ribaltato, una sinistra afona, e una classe politica di governo di stampo razzista e xenofobo, ci stanno progressivamente consegnando l’accoglienza dei migranti come problema dei problemi. Non avendo risposte da dare alle disuguaglianze (il reddito minimo del M5S è ormai una foglia di fico, anche concepita male), la cosa più semplice è parlare agli istinti più retrivi, che non sono nuovi nel nostro paese. Blandire i penultimi schierandoli contro gli ultimi: è questo il tratto distintivo delle prime politiche del nuovo governo. Che poggiano però su fondamenta già costruite, come l’architettura dei decreti Minniti-Orlando.

Visto il quadro delineato, seppur largamente incompleto, si comprende bene come l’azione della Cgil non possa essere semplicemente quella legata all’organizzazione di un presidio, peraltro neppure troppo riuscito. L’obiettivo che abbiamo di fronte deve essere quello di costruire un sistema di alleanze in grado di ribaltare progressivamente i rapporti di forza, radicato sul nostro territorio e ricco di rappresentanza. Abbiamo già cominciato, ma non siamo certi che, anche dentro casa nostra, la pensiamo tutti allo stesso modo.

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