La destra esiste ancora: sta nelle scelte economiche e razziste di Trump, nei muri eretti dalle politiche discriminatorie delle nazioni europee e in Italia, dove il ministro degli Interni, con lo slogan “prima gli italiani e la loro sicurezza”, indica come priorità da combattere non illegalità, corruzione, evasione, mafie, ma immigrati e Rom.
Altro che cambiamento, siamo al ritorno al passato più cupo. Forti con i deboli e deboli con i forti. Fenomeni migratori epocali andrebbero governati con lo sguardo rivolto al futuro, con politiche alternative al liberismo e alla globalizzazione senza controllo che hanno prodotto, con le nuove povertà e diseguaglianze, il consenso a questa destra politica e sociale.
E invece Salvini fa il ministro “sovranista” e razzista: usando indegnamente la carica istituzionale, diffonde ignoranza facendo leva sulle peggiori pulsioni dell’animo umano, alla ricerca del consenso popolare. Un incendiario che deturpa la nostra Costituzione e soffia irresponsabilmente sul fuoco della guerra tra poveri, dell’intolleranza e dell’inciviltà che, come insegna la storia, può divenire incontrollabile, in Italia e in Europa. E arriva, mafiosamente, a minacciare di togliere la scorta a chi, minacciato dai criminali come Roberto Saviano, dissente da lui.
Cresce in modo preoccupante, senza troppo contrasto nemmeno da parte delle più autorevoli cariche delle Stato, una maggioranza “rumorosa” con pulsioni razziste, in un paese che non ha mai fatto i conti col fascismo e le sue scelte criminali. Preoccupano le timidezze e la passività verso la violenza di un politicante che decide di chiudere i porti a oltre 600 profughi definendo una “crociera” il peregrinare di uomini, donne e bambini in fuga da condizioni intollerabili. “E’ finita la pacchia”: una frase terribile rivolta a chi sta cercando di sopravvivere. Poi le accuse alle Ong “complici e corresponsabili” del traffico di migranti, come purtroppo aveva fatto intendere anche il precedente ministro dell’interno. E ancora, la schedatura dei nomadi per poi cacciare gli stranieri, come nella peggiore tradizione razzista e fascista del primato della “razza bianca”. Come dimenticare le atrocità seguite alle leggi razziali fasciste del ’38 e come vennero accolte?
Non possiamo rassegnarci a questa barbarie. L’egemonia culturale di destra che va aggredita su tutti i fronti: culturale, valoriale, economico, sociale e politico. Purtroppo la sinistra è in afasia, piegata dai suoi errori e senza identità a livello nazionale ed europeo.
C’è però un grande bisogno di reagire contro questa onda nera. Subito. Non dobbiamo abdicare al nostro dovere di uomini e donne democratici, liberi da pregiudizi, di militanti della sinistra sociale e politica. Le forze sindacali, la Cgil, forte della sua storia e cultura, le associazioni democratiche antifasciste organizzino una risposta di massa che dia voce, dignità, rappresentanza e forza alla parte migliore del paese. La Cgil non si rassegna.
A Bruxelles c’è stato un “vertice informale” Ue sul tema dei migranti, senza il cosiddetto gruppo di Visegrad - Polonia, Ungheria, Cèchia e Slovacchia – che ha boicottato l’iniziativa perché non intende accogliere alcun essere umano. Già questo fatto annuncia il risultato negativo del Consiglio europeo di fine giugno, quando i 27 paesi dell’Unione europea cercheranno un’azione politica comune che in teoria dovrebbe essere scontata, in un’area vastissima con oltre 400 milioni di abitanti.
Nel mentre nel Mediterraneo si consumano quotidianamente drammi e tragedia. Con le navi delle ong che raccolgono i migranti per evitare che muoiano in mare, non sempre con successo. Con le singole nazioni Ue che si rimpallano le responsabilità della prima accoglienza, e del conseguente smistamento fra tutti i partner europei. Con l’Italia, che per anni con la Spagna ha gestito i flussi in solitudine, e che ora vuol bloccare i porti d’attracco.
Le destre europee motivano i propri elettori assicurando il ritorno dei confini nazionali. Le “sinistre di governo” hanno cercato un rimedio pagando, con i soldi Ue, i governi di Libia e Turchia, perché allestiscano sui loro territori dei “centri di raccolta”: prigioni a cielo aperto, inferni in terra dove le violenze e gli abusi la fanno da padrone.
“C’è la falsa illusione – tira le somme Marco Revelli - che ripristinando i confini possa ritornare il welfare di un tempo, le garanzie, i diritti sociali. E c’è l’idea che i migranti siano lo strumento occulto di un qualche piano del capitale per sfondare il potere d’acquisto e la forza negoziale dei lavoratori nostrani. Ignorando che quello si chiamava, non per nulla, ‘esercito industriale’. Appartenente cioè a un’altra era geologica, prima che si affermasse il finanz-capitalismo, che lavora e comanda appunto non con i corpi ma col denaro”.
“Quanto eri bella Roma…”. E’ questo il titolo del presidio svolto da Cgil, Cisl, Uil di Roma e Lazio in Campidoglio, il 6 giugno scorso. Il refrain di Venditti non voleva significare che Roma fosse bella fino all’avvento della giunta Raggi, ci mancherebbe. Anzi, per comprendere appieno il declino della capitale, dal punto di vista dei blocchi di potere rimasti invariati nel tempo, bisogna risalire quanto meno alla giunta Veltroni e al tanto sbandierato “modello Roma”. Ma l’immobilismo dell’attuale governo capitolino ha raggiunto, nel corso dei due anni successivi alle vittoria del M5S, un livello assolutamente allarmante. La crisi economica esplosa nel 2007, il debito monstre (13 miliardi di euro), il declino dei servizi pubblici principali (rifiuti, trasporti, servizi sociali) ci consegnano un quadro istituzionale grave, al quale non si è data alcuna risposta.
Roma è stata la locomotiva dello sviluppo economico per diversi lustri. Oggi sembra, sempre per usare le parole di un altro cantautore romano, “una cagna in mezzo ai maiali”. Una città che dietro il paravento della partecipazione – altro grande bluff del M5S – in realtà non riesce a tessere alcuna relazione strutturata con la miriade di rappresentanze effettive che si muovono nel territorio, sindacati compresi.
Molto spesso l’approccio mediatico ai problemi di Roma muove dalle questioni legate al decoro urbano, alla condizione delle strade. No, non sono questi i problemi veri che abbiamo davanti, anche se c’è una condizione di degrado visibile. I problemi sono strutturali e urgenti. Cominciando proprio dal debito. In campagna elettorale la proposta di ricontrattare il debito con Cassa depositi e prestiti (che, com’è noto, raccoglie e gestisce i risparmi di milioni di cittadini) era diventato un mantra di tutti, anche del M5S. Ora sono al governo della città e del paese, quali passi sono stati fatti in questa direzione? Nessuno. La sola ricontrattazione degli interessi (oggi al 5,5%) consentirebbe di recuperare e investire circa 200 milioni di euro l’anno.
Ma non è questa la sola inazione della sindaca romana. Vale lo stesso per il concordato di Atac, in odore di privatizzazione (a novembre si svolgerà il referendum promosso dai radicali in questa direzione); per l’incapacità di sviluppare una proposta sui rifiuti in grado di contemplare una reale risposta di economia circolare; per il definanziamento delle politiche sociali, in una città dove le periferie sono allo stremo e le vecchie e nuove povertà hanno subito un rapido incremento; per l’incapacità di garantire un sistema di appalti pubblici quanto meno con la clausola sociale e servizi adeguati; per la mancanza di un progetto di riordino della macchina capitolina nel suo complesso – partecipate comprese – che dia risposte coerenti ai reali bisogni della città.
L’elenco sarebbe ancora lungo, ma riteniamo siano sufficienti gli spunti offerti. C’è poi una questione, apparentemente meno rilevante, ma che rischia di diventare centrale se combinata con le politiche nazionali sui migranti. Roma è la città con il maggior numero di richiedenti asilo o protezione internazionale d’Italia, circa 13mila, lo 0,3% della popolazione residente nella provincia. Stiamo parlando di quegli uomini, quelle donne, quei bambini che vivono nei centri di accoglienza (Cas o Sprar che siano), e che attendono il riconoscimento del loro status, per poi avviare quel percorso d’inclusione sociale, lavorativa, scolastica che soltanto in una minoranza di casi riesce a concretizzarsi.
Un senso comune completamente ribaltato, una sinistra afona, e una classe politica di governo di stampo razzista e xenofobo, ci stanno progressivamente consegnando l’accoglienza dei migranti come problema dei problemi. Non avendo risposte da dare alle disuguaglianze (il reddito minimo del M5S è ormai una foglia di fico, anche concepita male), la cosa più semplice è parlare agli istinti più retrivi, che non sono nuovi nel nostro paese. Blandire i penultimi schierandoli contro gli ultimi: è questo il tratto distintivo delle prime politiche del nuovo governo. Che poggiano però su fondamenta già costruite, come l’architettura dei decreti Minniti-Orlando.
Visto il quadro delineato, seppur largamente incompleto, si comprende bene come l’azione della Cgil non possa essere semplicemente quella legata all’organizzazione di un presidio, peraltro neppure troppo riuscito. L’obiettivo che abbiamo di fronte deve essere quello di costruire un sistema di alleanze in grado di ribaltare progressivamente i rapporti di forza, radicato sul nostro territorio e ricco di rappresentanza. Abbiamo già cominciato, ma non siamo certi che, anche dentro casa nostra, la pensiamo tutti allo stesso modo.
Significativa adesione allo sciopero di due ore e alla manifestazione in Piazza Castello del 13 giugno.
Il 13 giugno scorso Cgil Cisl Uil di Torino hanno indetto uno sciopero generale territoriale di tutti i settori di almeno due ore e convocato una manifestazione in Piazza Castello sotto la sede della Prefettura, per denunciare ancora, a poche settimane dal Primo Maggio, la necessità di contrastare gli infortuni e le morti sul lavoro. Infatti nel nostro territorio e in tutto il paese gli episodi sono in aumento; siamo di fronte ad una vera e propria emergenza in tutti i luoghi di lavoro, che si consuma in un silenzio quasi assordante.
Le cause sono note. Scarsa cultura della sicurezza, e più in generale scarsa cultura del lavoro, ma anche molti altri fattori sui quali chiediamo un intervento forte del governo: precarietà e discontinuità occupazionale, regolamentazione e controlli nella filiera degli appalti, aumento dell’età pensionabile, patologie dovute all’innovazione tecnologica, peggioramento generale delle condizioni, dell’organizzazione e dei tempi di lavoro, stress lavoro correlato, e altro ancora.
Siamo scesi in piazza per chiedere che si passi dalle parole ai fatti concreti, e che ci sia un’assunzione di responsabilità, investimento e intervento del pubblico e del privato. Per fare prevenzione, è necessario incrementare e migliorare la sorveglianza sanitaria e i controlli ispettivi (fortemente in calo negli ultimi anni), soprattutto sul fronte del contrasto degli infortuni, mentre per quello che riguarda le malattie professionali vanno incentivate le denunce da parte dei medici competenti, anche quelli di famiglia, previste dalla legge pure in caso di semplice sospetto.
Riteniamo sia indispensabile potenziare l’informazione e la formazione dei lavoratori e delegati su queste materie, soprattutto in quei settori nei quali la precarietà è diventata la forma “ordinaria” di lavoro e ricatto. E’ fin troppo facile contrastare l’argomento, caro alle aziende, che gli infortuni siano colpa dei lavoratori infortunati. In quest’ottica è necessario inoltre vigilare sui capitolati d’appalto e sul loro svolgimento.
L’adesione allo sciopero è stata significativa, toccando punte tra il 70 e il 90% in molte realtà manifatturiere importanti dell’area metropolitana di Torino, e anche la partecipazione in piazza è stata alta, a significare che le lavoratrici e i lavoratori sono molto consapevoli e preoccupati del peggioramento delle loro condizioni di lavoro e sicurezza. In piazza si sono alternati interventi di lavoratrici e lavoratori, operatori dei patronati, associazioni, e i segretari generali confederali.
Nel corso della manifestazione una delegazione è stata ricevuta dal Prefetto, che ha dimostrato grande attenzione al tema e ha condiviso le nostre considerazioni e preoccupazioni, assumendo alcune delle nostre proposte. In particolare ha dato la sua disponibilità a convocare un tavolo con sindacati, l’Anci e il Comune di Torino per garantire che possa trovare una definizione conclusiva la discussione in corso da mesi su una regolamentazione degli appalti, affinché ci sia una maggiore tutela delle lavoratrici e dei lavoratori nei cambi di appalto. Un altro impegno concreto è arrivato dalla Prefettura, che continuerà il grande lavoro di controllo non solo sulla regolarità degli appalti, ma anche sul lavoro nero, irregolare, e sulle infiltrazioni mafiose. Perché anche in questo modo si agisce sulla tutela della salute e sicurezza.
C’è stata infine l’importante disponibilità di rivitalizzare alcuni tavoli tematici cittadini, nati dopo la tragedia delle morti sul lavoro alla Thyssen Krupp di Torino nel 2008, attraverso il coinvolgimento attivo di tutti i soggetti presenti ai tavoli. E’ stata poi esplicitata la disponibilità a un confronto volto ad individuare strumenti concreti che possano portare a una modifica della legge sulle pensioni, nell’ottica di ampliare le 15 categorie di lavori per le quali non aumenterà l’aspettativa di vita. Cioè, stante le nostre richieste al governo, provare ad ampliare la platea anche indagando la correlazione tra infortuni e lavoro svolto.
L’alta partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori allo sciopero e in piazza e l’attenzione concreta della Prefettura ci confermano che, davanti alla gravità della situazione, dobbiamo mantenere il nostro impegno quotidiano di vigilanza, denuncia e proposta, dando continuità al nostro lavoro sia nelle azioni concrete in tutti i luoghi di lavoro che attraverso iniziative pubbliche e di mobilitazione.