La Cgil, la politica, la sinistra - di Cesare Caiazza

 

Gli interessi del mondo del lavoro e dei pensionati - la maggioranza della società - non sono rappresentati nelle istituzioni e nella politica. Un tema enorme, che richiede un’assunzione di responsabilità da parte del sindacato, ad iniziare dalla Cgil. La teorizzazione del superamento delle ideologie e della concezione “destra–sinistra” ha determinato la negazione del concetto fondamentale che la “politica” rappresenta il terreno di scontro e di confronto tra capitale e lavoro.

Mentre la finanza e il capitale, insieme alle professioni, vedono aumentare la propria rappresentanza e il proprio peso in politica, non esiste in Italia – da molti anni – un “partito” di massa che si definisca “dei lavoratori”. In tutti i paesi del mondo i sindacati (anche quelli corporativi, non “generali” come la Cgil) sono impegnati nell’affermare la rappresentanza del lavoro nelle istituzioni, per la ragione che le vertenze e le lotte rischiano di essere irrilevanti in assenza di una sponda politica capace di tradurle in interventi legislativi.

L’esito delle elezioni del 4 marzo consegna inoltre una vera e propria emergenza democratica, che grandi organizzazioni di rappresentanza sociale di massa non possono sottovalutare. Non può essere declassato a solo fatto elettorale l’inquietante affermazione di Salvini: una destra xenofoba contigua ai neo fascisti che ottiene consenso sulla paura dei migranti e sulla lotta dei penultimi contro gli ultimi.

Del resto l’avanzata dei 5 Stelle, soprattutto perché poggia sul consenso di un elettorato proveniente dalla sinistra, rappresenta l’altro corno del problema dell’emergenza democratica. Un movimento che – al di là di preoccupanti aspetti sulla democrazia interna – riesce ad offrire speranza di cambiamento attraverso proposte populiste e confuse, apparentemente “interclassiste”, e non scioglie grandi ambiguità su antifascismo e antirazzismo. Anzi, come nel Lazio con i manifesti “– immigrati + turisti”, sia pure con toni diversi da Salvini, tende anch’esso a cavalcare paure e intolleranza.

Di fronte al quadro schematicamente descritto, ritengo che la Cgil, pur marcando la propria autonomia come valore fondante, non debba rimanere indifferente e non possa che riflettere su due implicazioni che direttamente la riguardano. La prima interessa l’orientamento politico e culturale della propria base che, pur iscritta ad un’organizzazione che ha nei fondamenti del proprio Statuto l’antifascismo e l’antirazzismo, evidentemente ha espresso nel voto opinioni diverse (anche in ragione del “tradimento” dal parte del Pd, che negli ultimi anni ha sviluppato politiche di destra e impopolari, e dell’assenza di una sinistra attrattiva e di massa). Poi la seconda: non sembra naturale che un’organizzazione di rappresentanza sociale, con quasi sei milioni di iscritti, non abbia saldi ed affidabili riferimenti nelle istituzioni e nella politica; anzi non ne abbia affatto.

Il XVIII Congresso della Cgil (che ambisce a definire strategie per una maggiore tutela del mondo del lavoro e dei pensionati, a riconquistare ed estendere diritti e condizioni di benessere, nell’ottica dell’interesse generale e del cambiamento del paese) non può eludere questi nodi, deve affrontarli alla radice. Ad esempio, anche interrogandosi sull’incompatibilità (decisa nel Congresso del ‘69) tra cariche sindacali, mandati elettivi e incarichi negli uffici politici dei partiti. Certo, non per mettere in discussione l’autonomia del sindacato. Anche se va ricordato che fu una scelta indotta da una esplicita richiesta della Cisl, come condizione per la costituzione della federazione unitaria. Personalmente ho nostalgia del tempo in cui donne e uomini del sindacato sedevano in Parlamento (Di Vittorio, Foa, Novella, Lama, Trentin; ma anche Pastore, Storti, Tina Anselmi e tanti altri), espressione e rappresentanza diretta del mondo del lavoro. Non è la stessa cosa avere in Parlamento ex dirigenti del sindacato che, senza ormai più vincoli di rappresentanza, votano con tranquillità anche nefandezze come il jobs act…

Il punto è, a mio parere, l’eccessiva estensione dell’incompatibilità che, attualmente, interessa una platea troppo ampia ed estesa di quadri (riguardando perfino Rsa, Rsu e Leghe dello Spi) ai quali, di fatto, viene menomato il diritto a un contestuale impegno nella politica, che pure rappresenta un cardine della democrazia come sancita dalla nostra Costituzione. Se è interesse del sindacato una politica intesa come partecipazione di massa e presenza nei luoghi di lavoro e nei territori, contrastando le attuali derive leaderistiche e cesariste, forse possiamo fornire un contributo, rivedendo alcune norme e liberando risorse che possono lavorare per la ricostruzione di una prospettiva politica e sociale di sinistra.

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