Possono fallire i piccoli imprenditori, anche quelli grandi, perfino le squadre di calcio. Ma le banche no. Quando vanno male, male, male interviene lo Stato. Talvolta, come nel caso del Monte dei Paschi, diventandone pro-tempore proprietario. Altre volte, è il caso di Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca, prendendosi in carico i passivi e regalando quel che c’è da salvare a un’altra banca, più grande, come Intesa San Paolo. Per giunta pagandola per far fronte alla cosiddetta riorganizzazione interna, leggi esuberi dei lavoratori e chiusura di agenzie. Per alcuni lo Stato è padre, per altri patrigno e nemmeno troppo affettuoso.

La cessione a Intesa San Paolo di Popolare di Vicenza e Veneto Banca - ripulite dalle sofferenze - comporta una riorganizzazione che prevede 3.900 posti di lavoro in meno (sui circa 10mila in organico), e la chiusura di due terzi degli sportelli. Per accompagnare la maxi-operazione, il finanziamento pubblico ha portato in dote un miliardo e 285 milioni di euro, per evitare a Intesa di dover sostenere i costi di ristrutturazione: una condizione, questa, posta esplicitamente nel contratto che regola la cessione. I giapponesi di Nomura parlano apertamente di bail out, cioè di un salvataggio a totale carico dello Stato. E in effetti, all’ok di Francoforte e Bruxelles alla liquidazione delle due banche (12miliardi di sofferenze in carico allo Stato), si aggiungono i contributi pubblici per la riorganizzazione. Intesa San Paolo ringrazia. Nel decreto si legge che Intesa riceverà dallo Stato un “supporto finanziario” per “un importo massimo di 3.500 milioni”. Per giunta Intesa entra nel mercato del credito veneto con il 30% degli sportelli. Dominante.

Per quanto concerne la progressiva integrazione delle due Banche Venete in Intesa il processo potrebbe essere definito già nell’arco temporale di sette mesi. Entro febbraio 2018, inoltre, vi saranno semplificazioni societarie, razionalizzazione reti filiali (incluse Banca Nuova e Apulia) e la migrazione informatica. Chi è stato ‘costretto’ a pendere azioni o sub-obbligazioni per avere prestiti al momento non dovrebbe riavere i suoi soldi.

Denis Sbrissa, Rsa per la Fisac-Cgil della banca popolare di Vicenza, racconta la rabbia di tanti piccoli risparmiatori veneti, tra cui gli stessi dipendenti della banca, che negli anni hanno dovuto ‘pagare pegno’ ai sogni di grandezza di re Zonin, ed ora sono rimasti con un pugno di mosche in mano. “Nei giorni scorsi hanno manifestato a Castelfranco contro la decisione del governo di non dare corso ai risarcimenti per chi abbia acquistato azioni e sub-obbligazioni dopo il 2014. I clienti se la prendono con noi - spiega Sbrissa - senza considerare che siamo tutti nella stessa barca, perché siamo azionisti oltre che dipendenti”. Brutta storia davvero. Centocinquanta anni di vita cancellati da una gestione scellerata, patologica dell’istituto di credito. “Il 25 giugno scorso eravamo tecnicamente falliti, abbiamo rischiato di finire in mezzo a una strada. L’ingresso di Intesa ha messo una toppa, ma bisogna comunque mettere i puntini sulle ‘i’. C’è la promessa di tutelare i dipendenti, ma la chiusura di centinaia di agenzie (due terzi degli sportelli) sul territorio e la riorganizzazione messa in cantiere da Intesa si faranno sentire nella vita quotidiana di molti di noi”. Sbrissa osserva con preoccupazione e amarezza la progressiva sparizione delle banche popolari, sacrificate sull’altare delle direttive europee. “La loro trasformazione in Spa mantiene i suoi dubbi”, dice e ricorda che “alla fine degli anni ottanta c’erano ancora sette banche pubbliche. Eppure la concorrenza nel settore non mancava”. L’arrivo di Intesa scrive la parola fine su un pezzo di storia del credito veneto. “Inevitabilmente la scomparsa della Banca popolare di Vicenza e di Banca Veneta si ripercuoterà sull’economia di tutta la regione, ci saranno meno posti di lavoro e saranno messe in difficoltà le aziende bisognose di linee di credito”. Il sindacalista segnala che “non tutti i posti di lavoro sono stati salvati. I tempi determinati non saranno rinnovati. E ancora una volta a pagare il prezzo della ristrutturazione saranno i più giovani, che verranno mandati a casa. Non può che allarmarci - aggiunge Sbrissa - la richiesta di mobilità straordinaria, legata alla riorganizzazione interna. Non solo c’è chi rischia di lavorare a duecento chilometri da casa, ma c’è anche chi rischia di cambiare le sue mansioni. Seicento agenzie in meno vogliono dire seicento direttori in meno. Lo Stato aiuterà i prepensionamenti, anche di chi non ha ancora l’età per smettere di lavorare. Ci sarà un accordo generale per favorire l’esodo”. Si chiude una pagina molto dolorosa e il futuro è ancora tutto da scrivere. Perché loro sono bancari, non banchieri.

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