Ho sempre criticato quei rappresentanti della sinistra che usano citare il Papa per legittimare e dare forza a termini come uguaglianza, solidarietà, giustizia sociale, accoglienza e integrazione, diritto ad un lavoro e ad una vita dignitosi. Parliamo di termini storicamente patrimonio della lotta politica e sociale del movimento dei lavoratori e della sinistra. Se si avverte il bisogno di legittimarli ed attualizzarli richiamando il Pontefice, evidentemente non abbiamo più l’autorevolezza e la credibilità di veicolarli tra le masse, in un progetto politico e sociale di cambiamento. E’ un tema che interessa anche la Cgil, e che dovrà vivere all’interno dell’imminente stagione congressuale.
Nel discorso rivolto ai delegati del congresso Cisl, Jorge Bergoglio ha detto: “Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “syn-dike” cioè “giustizia insieme”. Ma non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi. Il buon sindacato rinasce ogni giorno nelle periferie, trasforma le pietre scartate dall’economia in pietre angolari. … Ma forse la nostra società non capisce il sindacato, perché non lo vede abbastanza lottare nelle periferie esistenziali. Non lo vede lottare tra gli immigrati, i poveri, oppure perché la corruzione è entrata nel cuore di alcuni sindacalisti....col passare del tempo, ha finito per somigliare troppo ai partiti politici, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia”.
Al di là dell’azione confederale nazionale che – soprattutto attraverso la campagna per un nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori e dei referendum, e prima con il Piano per il lavoro – ha avuto il merito di tenere accesa la speranza e la prospettiva connesse ad un’idea diversa di società, anche come Cgil dobbiamo interrogarci sul perché scontiamo problemi crescenti di credibilità nei luoghi di lavoro e nei territori, tra le persone che vogliamo rappresentare.
Una delle possibili risposte attiene ad alcuni processi di burocratizzazione che interessano anche il modo e la capacità di stare, quotidianamente, nei territori e nelle realtà lavorative (prevalentemente in quelle dove il lavoro è maggiormente parcellizzato, precario e sfruttato). Uno dei temi centrali del congresso ritengo debba essere legato alle scelte politico-organizzative da definire per dare nuova “spinta propulsiva” ad un’idea di sindacato che fa vivere le strategie generali e delle singole categorie sulle gambe, sull’impegno e la passione di dirigenti e rappresentanti capaci di interconnettersi e dare voce, attraverso processi partecipativi dal basso, alle tante sofferenze che affliggono i lavoratori e i ceti sociali deboli.
Un altro argomento che, a mio parere, dovrà vivere nel congresso attiene al come, negli ultimi decenni segnati dalla globalizzazione, il tentativo di difendere i diritti della classe lavoratrice prevalentemente nei confini nazionali ha portato verso un loro inevitabile arretramento. L’unica risposta alla globalizzazione liberista non può che essere l’internazionalizzazione dei diritti dei lavoratori. Quale contributo può dare la Cgil verso la costruzione di un sindacato europeo e di un sindacato mondiale non più solo somma delle sigle nazionali, ma soggetti sociali capaci di contrastare, attraverso un’azione condivisa e incisiva, le politiche dello sfruttamento, del profitto e della finanza, in Europa e nel mondo?
Non possiamo poi rimuovere due enormi questioni che riguardano la natura stessa della nostra organizzazione. Una, che qui ho lo spazio solo per citare, attiene al rapporto con la politica. L’altra riguarda il pluralismo politico in Cgil, imprescindibile momento di ricchezza e valore insopprimibile in un’organizzazione di massa con sei milioni di iscritti.
Dopo il superamento delle componenti e l’affermazione della natura programmatica, nel 1991, il pluralismo di carattere confederale ha vissuto – per lungo tempo – sui documenti alternativi, sulle aree congressuali e sulle aree programmatiche. Già da molto tempo, attraverso derive distorsive, abbiamo registrato l’avvento di un “pluralismo politico”, agito prevalentemente sulla base di un confronto e spesso di uno scontro tra strutture. Forse dobbiamo interrogarci sul fatto che anche le modalità che hanno regolato la vita dell’organizzazione dal ‘91 ad oggi devono essere riviste.
Nel XVIII Congresso, che auspico unitario, con un unico documento, come si esprimerà e si articolerà il pluralismo? Non ritengo più possibile la riproposizione di “aree programmatiche” non congressuali. Forse, non da soli come Lavoro e Società, ma dialogando con tutti, (a partire da quanti possono esprimere interesse per una sinistra sindacale ampia, parte della maggioranza ed in grado di fornire un peculiare contributo collettivo) dobbiamo affrontare questa tematica provando ad avanzare proposte capaci di prefigurare un nuovo modello di confronto nel quale ci sia spazio, agibilità e riconoscimento per il pluralismo.