Il contratto nazionale non è fuori moda - di Elena Palumbo

 

Grande partecipazione allo sciopero e alla manifestazione nazionale di Firenze del 13 gennaio.

Due scioperi generali con manifestazione, e un’assemblea dei delegati: queste le iniziative messe in campo dai sindacati di categoria per rivendicare il rinnovo del contratto del tessile-abbigliamento, scaduto a marzo 2016 e che coinvolge circa 400mila addetti. L’adesione agli scioperi è stata massiccia in entrambe le date (con punte del 100% in territori e aziende significative). Una grande risposta a chi ci ha sfidato, al tavolo di trattativa, dicendoci che voleva contarci nelle piazze, e che i lavoratori e le lavoratrici ormai non hanno più voglia di lottare per rivendicare salario e diritti.

Invece in un settore come quello tessile, composto per lo più da aziende di piccola e piccolissima dimensione, le lavoratrici e i lavoratori conoscono bene l’importanza di riuscire a rinnovare il contratto nazionale, perchè nella maggioranza delle realtà è l’unico strumento attraverso cui si erogano incrementi salariali e si garantiscono i diritti. Date le dimensioni delle unità produttive, la contrattazione aziendale è poco sviluppata e le Rsu svolgono un ruolo contrattuale limitatamente alle grandi imprese del settore. Per queste ragioni lavoratrici e lavoratori non hanno esitato a mobilitarsi nella lotta.

Nel panorama di Confindustria, Smi (Sistema Moda Italia) è l’associazione datoriale più vicina alle linee politiche di Federmeccanica. Il suo tentativo è quello di estendere il modello della soluzione contrattuale dei meccanici a un altro importante settore manifatturiero per numero di addetti come quello tessile. E’ chiaro che senza questa operazione il “modello meccanico” faticherebbe ad affermarsi come modello di riferimento nel panorama generale e confederale. I contratti chiusi dopo quello dei metalmeccanici hanno trovato soluzioni diverse, e se anche il tessile trovasse una soluzione propria, quello rimarrebbe semplicemente un contratto fra i contratti.

Quel contratto è figlio della storia, dei rapporti di forza e delle relazioni industriali di quel settore. Certo è che la soluzione di legare gli incrementi salariali ad automatismi post inflazione, depurata dai costi energetici importati, non ci convinceva prima (accordo separato del 2009) e continua a non convincerci adesso. Limitare il ruolo del contratto a registrare l’inflazione, e a recepire le normative di legge, significa la morte della contrattazione collettiva e dei contratti nazionali di lavoro.

Occorre capire a quale strumento agganciare la rivalutazione dei salari: l’inflazione non può più essere il dato di riferimento, soprattutto in un periodo di deflazione, perchè il rischio è che, per rendere appetibili i contratti sul versante economico, si prosegua nella svendita dei diritti. Per questo stanno lottando le lavoratrici e i lavoratori del tessile: per un contratto nazionale che, sì, recuperi il salario ma senza perdere diritti. Su questo gli ultimi governi hanno già fatto abbastanza…

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