Tra gradini e petali di rose - di Marilena Grassadonia

 

I 14 gennaio scorso, con l’approvazione dei decreti attuativi, la legge sulle unioni civili è entrata a far parte della storia del nostro paese. E questo pezzo di storia ci racconta di gente comune che desidera vivere in una società in cui le differenze convivano e si arricchiscano l’una con l’altra. Riempiendo le piazze, la gente ha capito quanto sia importante che la politica dei diritti civili, quell’illustre sconosciuta, si appropri di un suo spazio e di una sua dignità.

I diritti civili non sono un tema da affrontare solo dopo economia ed occupazione. I diritti civili sono il vero termometro della civiltà di un paese e del benessere dei cittadini. Ne stiamo avendo conferma con le tante coppie gay e lesbiche che festeggiano le proprie unioni civili con gioia e circondate dagli affetti più cari. Mentre nelle grandi città si è ormai abituati alla visibilità degli omosessuali, la vera rivoluzione sta avvenendo nei piccoli centri, dove la celebrazione di una unione civile si trasforma in un evento sociale.

Allora è tutto “riso e fiori”? Trasmissioni televisive raccontano di cerimonie felici, di preparativi accurati, di confetti di mille colori, di lacrime di gioia, di riso e petali di rosa lanciati fuori dalle sale, di sorrisi ed emozioni. E noi siamo lì, con quella strana espressione sul viso che sembra voler dire “non ci posso ancora credere”, fermi a godere, dopo tanti anni, di questo momento: aver visto finalmente riconosciuto qualche diritto. Perché in questi anni una grossa fetta del mondo lgbt, stanco dall’interminabile attesa, si è convinto che la teoria dei piccoli passi fosse l’unica strada percorribile, ripercorrendo così la storia dei nostri vissuti in cui spesso l’obiettivo era farsi accettare piuttosto che pretendere rispetto.

Per tanti anni abbiamo raccontato le nostre vite sottovoce per non sconvolgere chi le ascoltava, e abbiamo inseguito i nostri sogni quasi increduli, prima di renderci conto che potessero realizzarsi. Così facendo non abbiamo fatto altro che metterci un gradino sotto gli altri, dimenticandoci delle nostre vite, dei nostri desideri, delle nostre scelte, in una parola della nostra dignità. E oggi, quando diciamo che le unioni civili sono come un matrimonio, ci stiamo solamente illudendo di essere riusciti ad ottenere la vera parità, ma in realtà stiamo ancora sostando su quel gradino.

L’unica cosa che tutti i politici, di qualsiasi schieramento, hanno indistintamente sottolineato, è stata proprio che le unioni civili fossero un istituto giuridico “altro” rispetto al matrimonio. Tutti d’accordo a volerci differenziare dal resto dei cittadini, tutti d’accordo a voler apporre sulle nostre carte di identità uno stato civile che non fa altro che schedarci come “diversi”, tutti d’accordo a farci sostare su un gradino più basso. Perché se è vero che le coppie gay e lesbiche potranno unirsi civilmente in un qualunque comune di Italia, noi genitori omosessuali, per assumerci le nostre responsabilità nei confronti dei nostri figli, dobbiamo sperare di vivere nel comune giusto e di incontrare ogni giorno la gente giusta.

Le famiglie arcobaleno sono oggi costrette ad attraversare un iter giudiziario che lede ancora una volta la dignità di gay e lesbiche, genitori e cittadini di questo paese, che vogliono solo proteggere i propri figli. La politica ha la grande responsabilità di non avere legiferato sulla serenità di centinaia di bambini, e oggi deve agire mantenendo le promesse fatte e senza proposte al ribasso.

La riforma sulla legge delle adozioni è un altro compromesso che la politica ci propone, è un’altra di quelle grandi bugie che ci vengono raccontate. Noi gay e lesbiche siamo prima di tutto donne e uomini, e come tutte le donne e gli uomini abbiamo il diritto di seguire i nostri sogni. L’adozione deve essere, per tutti i cittadini di questo paese, un percorso possibile e non una scelta obbligata.

Noi omosessuali i figli li facciamo e li continueremo a fare, nel rispetto delle leggi e di tutte le persone coinvolte, e vogliamo poterli riconoscere alla nascita assumendoci, fin dal primo istante, le nostre responsabilità. Vogliamo poter accedere alle tecniche di fecondazione assistita nel nostro paese, in cui viviamo, lavoriamo e paghiamo le tasse. Vogliamo poter adottare quei bambini che non hanno la fortuna di avere una famiglia. Vogliamo che i nostri figli, quelli che già esistono, possano essere tutelati da entrambi i loro genitori nello stesso identico modo. Insomma vogliamo continuare a lanciare riso e petali di rose, ma questa volta dal gradino più alto, quello dei diritti veri.

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