Riflessioni e proposte a vent’anni dall’entrata in vigore della moneta unica.
Ormai ha 20 anni e sarebbe ora che si rendesse indipendente dalla casa dove è stato concepito. Parlo dell’Euro, entrato in corso il primo gennaio del 2002. E di Maastricht, il trattato iperliberista che lo progettò dieci anni prima. Venti anni sono abbastanza per emanciparsi, anche se il peso genitoriale è particolarmente incombente e la “famiglia” di Maastricht, che è poi la governance che Maastricht ha edificato, è particolarmente incombente e repressiva.
A stare alle teorie serie sulle aree ottimali per l’uso di una moneta unica, come quelle di Robert Mendell, le profonde differenze economiche in Europa sconsigliavano il salto. Si sa come andò la Storia, sull’onda della caduta del muro di Berlino. La Francia spinse per una accelerata nella integrazione funzionalistica, cioè economicistica. La Germania ci mise sopra la sua dottrina forte, l’ordoliberalismo; e la sua economia, che aveva bisogno di finanziare l’unificazione e crearsi un mercato esportativo.
Si creò una convergenza geopolitica, l’asse franco-tedesco; una convenienza di classe, l’alleanza tra le borghesie per gestire la restaurazione neoliberale e la “lotta di classe” rovesciata; l’esigenza di stare dentro i processi di globalizzazione finanziaria con una scala minima indispensabile. Il risultato è stato una creatura strana e abnorme, rispetto agli stessi standard del capitalismo moderno: la Ue. Una sorta di “moneta, banca, governance/Stato”. Una piattaforma di mercato per le esportazioni. Una realtà ipermoderna totalmente ibridizzata col mercato. Una dimensione iperideologica nel suo mercatismo e di “eticismo relativista” nei valori e nei diritti. Un connubio “neofeudale” tra burocrazie e nazioni, appunto la governance.
In questo ambito anche la moneta è del tutto atipica. Una moneta che prescinde da un popolo sovrano. Che è comune ma poi differenziata negli usi e nei valori. Niente vero bilancio comune né tantomeno politiche economiche condivise. Con lo spread a sancire che lo stesso valore è differenziale.
Questa “cosa” è stata a galla ma non ha conseguito alcuno degli obiettivi di armonizzazione dichiarati. Basta vedere i differenziali salariali che sono restati tali, anzi amplificandosi per Stati, aree, generazioni e generi. E qui l’Italia fa il record negativo stando con la media salariale sotto il 1990. Siamo gli unici.
Risultato diverso se si guarda alla lotta di classe rovesciata. Cosa ha evitato i conflitti esplosivi tra borghesie di fronte ai surplus esportativi tedeschi o nelle crisi del 2009 e di oggi? Risposta facile: l’interesse a far pagare alle classi subalterne i prezzi di quanto accadeva. Basti pensare che in venti anni la tassazione sulle imprese è scesa nella media Ue dal 30 al 20%. Per non parlare delle privatizzazioni del tanto pubblico che c’era in Europa. E che l’Europa l’aveva fatta. Se si poteva parlare di modello sociale europeo, nonostante le differenze che non rendevano l’area ottimale per una moneta unica, era proprio per il ruolo del pubblico e del lavoro che lo edificavano, anche a cavallo tra Ovest ed Est. E nonostante che le borghesie utilizzassero inflazione e svalutazione per frenare il lavoro e competere.
Maastricht ha cambiato il quadro verso ciò che ho descritto. Poi la moneta unica, e infine il nuovo assetto delle politiche di bilancio, forgiato nell’austerità. Ma ci sono due fatti che hanno la testa dura. Il primo è l’attualità delle crisi epocali che chiedono un ripensamento radicale dell’ideologismo neoliberale e nuove politiche economiche pensate e guidate. Il secondo, dna del modello europeo, è che lavoro e pubblico tornano, nelle crisi, ad essere baluardi indispensabili.
Allora si può cominciare a pensare che anche una moneta possa liberarsi e farsi adulta, uscendo dalla gabbia di Maastricht. Per diventare ciò che la moneta deve essere, e cioè un buon servitore e non un pessimo padrone. E per farlo può servire ripartire dal fondamentale: il salario. Un salario minimo e adeguato a livello europeo, e contrattato anche a questo livello, che accresca la quota di ricchezza che va al lavoro, e armonizzi le retribuzioni verso l’alto.