Il Cile si lascia definitivamente alle spalle il ‘900. Quel “secolo breve” che per il Paese andino è stato sinonimo di repressione feroce e forti ingiustizie sociali. Una fine sancita lo scorso 19 dicembre dalla vittoria del giovane candidato della sinistra, il trentacinquenne Gabriel Boric, esponente della coalizione Frente Amplio alleata con il Partito Comunista. Una realtà politica assolutamente nuova, ben distinta dalla Concertacion por la democrazia, la coalizione di centro-sinistra che ha governato quasi ininterrottamente il Cile dal 1991. Frutto di quel movimento che dal 2019 ha scosso alle fondamenta la struttura politica cilena basata sulla Costituzione del 1981 promulgata dalla dittatura.
Il giovane giurista ha battuto il neofascista Antonio Kast, nostalgico del regime di Pinochet e con una tradizione familiare assolutamente coerente, visto che il padre era stato iscritto al partito nazista. Boric ha ribaltato il risultato della consultazione elettorale del 21 novembre scorso, quando conseguì il 25,83% contro il 27,91% di Kast, battendo invece nettamente il suo avversario al ballottaggio con il 55,86% contro il 44,14% del candidato dell’estrema destra. E con un’affluenza di 8 milioni di votanti, tra le più alte nella storia del Cile.
Un voto che ha fatto seguito a quello del 15 e 16 maggio per nominare i membri dell’Assemblea Costituente, anche in quel caso vinto nettamente dalla sinistra. E ancor prima a quello referendario del 25 ottobre 2020 stravinto dalla lista “Approva”, che ha richiesto la promulgazione di una nuova Carta costituzionale.
La sfida di Boric, che si insedierà il l’11 marzo prossimo, è da far tremare i polsi. Il nuovo inquilino della Moneda dovrà praticamente smantellare un “welfare”, se così possiamo chiamarlo, basato sostanzialmente su una gestione privatistica del sistema sanitario, di quello pensionistico e dell’istruzione. Insomma un modello “made in Usa”, non a caso creato dalla dittatura basandosi sulle ricette liberiste dei Chicago Boys frutto del pensiero di Milton Friedman. Oltre che sostenere con forza una rivoluzione ambientalista, una battaglia per i diritti delle donne e dei nativi, categorie queste ultime rappresentate all’interno dell’Assemblea Costituente.
La vittoria del giovane, che per comodità potremmo definire socialista e che rappresenta l’ala meno ideologica e più moderata del movimento, è il risultato della grande mobilitazione di popolo, soprattutto di giovani, del 2019 che ha costretto l’allora presidente Sebastián Piñera a dare vita a questo percorso democratico. Un percorso che ha portato alla realizzazione di un progetto politico che, sia pure con tutte le differenze del caso, fa tornare alla mente quello del presidente socialista Salvador Allende, stroncato appunto dal tragico golpe dell’11 settembre 1973 organizzato proprio dal generale Pinochet.
A questo approdo si è arrivati malgrado la pesantissima repressione messa in atto dalle forze dell’ordine cilene. Durante le proteste circa 8mila persone hanno riportato danni fisici. Vogliamo citare i casi che hanno avuto più risalto mediatico: Mario Acuña, 44enne, morto dopo un pestaggio dei Carabineros; Patricio Pardo Muñoz, 26enne, accecato durante le proteste e successivamente suicidatosi; e poi il primo manifestante ucciso che aveva 29 anni, e Julía che ha denunciato di essere stata violentata in una caserma.
Uno scenario che ricorda quello del G8 di Genova. E come successo in Italia nel 2001, nessun dirigente delle forze di polizia o dei carabineros è stato chiamato a rispondere degli ordini impartiti. Anzi, proprio come in Italia vent’anni fa, molti protagonisti di quell’orrenda violazione dei diritti umani sono stati promossi.
Che cosa significa per il continente latino-americano il riscatto di un Paese simbolo della lotta per la democrazia? Dopo la fine del cosiddetto “Rinascimento latino-americano” dei primi anni 2000, quando quel variegato mondo della sinistra governava praticamente quasi tutto il continente, le destre erano tornate al governo con risultati catastrofici dal punto di vista economico e sociale, resi ancora più pesanti da una gestione sciagurata della pandemia da coronavirus, vedi il caso del presidente brasiliano Bolsonaro.
Ora però il vento sembra di nuovo soffiare nella direzione giusta. Dopo il ritorno della sinistra in Messico, Argentina, in Bolivia, le vittorie in Perù, Honduras, le rivolte in Colombia contro il governo di estrema destra e la probabile vittoria dell’ex presidente Lula in Brasile, si delinea un quadro assolutamente favorevole al nuovo Cile di Boric, che potrà simbolicamente guidare questo grande fronte progressista. Un probabile stimolo anche per una sinistra europea in continuo affanno. Ma su quest’ultimo punto è d’obbligo il pessimismo.