Il 14 dicembre scorso si è tenuta in Cgil Puglia l’assemblea regionale di Lavoro Società per una Cgil unita e plurale. Nonostante la concomitanza nella stessa giornata con lo sciopero generale, l’assemblea si è rivelata ben partecipata sia in termini di adesione che di qualità degli interventi. Oltre all’importante contributo del segretario generale della Cgil Puglia, Pino Gesmundo, che ha fornito un quadro esaustivo della situazione pugliese, sono intervenuti le compagne e i compagni: Claudia Nigro, Angela Giannelli, Donato Stefanelli, Maria Viniero, Luigi Antonucci, Giusy Ungaro, Rachele Occhionero, Matteo Spadaro, in rappresentanza dei territori e delle categorie. Ha concluso i lavori della giornata Federico Antonelli del coordinamento nazionale di Lavoro Società. Pubblichiamo l’intervento del prof. Roberto Voza, Ordinario di diritto del lavoro all’Università di Bari, che ha offerto un contributo importante in termini di analisi e proposte, utile alla Cgil a partire da questa fase congressuale.
Quando mi è stato assegnato questo titolo, mi è subito venuta in mente una frase di Ivan Cavicchi: “i diritti non si tutelano, si costruiscono”, arrivano cioè al termine di un percorso nel quale l’effettività sociale anticipa l’astratta affermazione giuridica.
Il documento congressuale ‘Il lavoro crea il futuro’ dimostra che la Cgil ha le idee chiare sia nella parte dedicata alla analisi della situazione attuale, sia in quella in cui prova a costruire un’agenda di misure da mettere in campo. Penso, in particolare, alle cinque azioni prioritarie annunciate nel documento.
Ma se è vero che i diritti non si tutelano, si costruiscono o, nel nostro caso, si ricostruiscono, occorre immaginare una strada per creare le condizioni utili a sorreggere l’opera di ricostruzione.
Siamo così pressati dalle urgenze del Pnrr da rischiare di smarrire gli obiettivi di fondo a cui orientare questa frenetica corsa contro il tempo. Ci viene detto che dobbiamo acchiappare il treno in corsa, ma rischiamo di salire a bordo senza conoscerne la direzione. Insomma, ‘ripresa’ e ‘resilienza’ diventano parole vuote e stucchevoli, se non sono collegate ad una visione generale della società, esattamente quella che manca da troppo tempo.
Proprio la crisi del lavoro come crisi della sua rappresentanza politica sovraccarica il sindacato, e la Cgil in particolare, di un compito pesantissimo: quello di dare voce ad un mondo sociale, sempre più incantato dalle sirene del populismo identitario e reazionario oppure semplicemente rassegnato ad un destino di marginalità e di ripiegamento nell’individualismo.
La pandemia sembrava averci riportato ad un insegnamento antico. Quando stai male o hai fame, te ne fai poco della libertà dagli altri, nella sua radice individualistica, con cui si è radicata nell’utopia neo-liberista, che esalta le capacità taumaturgiche del mercato.
È vero ciò che dice il documento congressuale, ossia che siamo di fronte ad una situazione straordinariamente complessa. Ma, almeno, non ci mancano i fondamentali. Noi sappiamo di essere collocati sulla sponda opposta a quella dove siedono tutte le forme, vecchie e nuove, di darwinismo sociale. Il darwinismo sociale non è una scienza, ma una ideologia, che ha sempre contrapposto la libertà di ciascuno all’eguaglianza di tutti, propugnando un’idea della convivenza nella quale vi sono perdenti che non possono ambire all’eguaglianza, ma – al massimo – alla carità dei vincitori.
Contro questa idea che esalta la libertà a scapito dell’eguaglianza, quasi che fossero tra loro inconciliabili, basterebbero le parole di Piero Calamandrei, quando diceva che la libertà non è un filo spinato, non è “garanzia di isolamento egoistico, ma garanzia di espansione sociale”. Queste parole risuonano straordinariamente attuali di fronte all’acuirsi, su scala planetaria, di vecchie e nuove diseguaglianze sociali, economiche e culturali. Allora, tornare alla Costituzione non è un atto di contemplazione liturgica, ma un atto di ritorno al futuro. La Costituzione è un Inno alla Concordia tra Libertà ed Eguaglianza, separate dai totalitarismi del ‘900.
Non mi illudo che possa riprendere di colpo a soffiare il vento della Storia, quello che ha animato i grandi movimenti del Novecento, artefici di una parte rilevante del cambiamento – anche dal punto di vista giuridico – del nostro Paese.
Abbiamo però il dovere morale di opporci alla straordinaria perdita di memoria in cui siamo precipitati: una perdita di memoria selettiva, che rimuove la dimensione collettiva dei movimenti organizzati e delle lotte di massa. Si tratta di un fenomeno ormai antropologico, prima ancora che politico. Non è un caso che alla centralità del lavoro si sia andata sostituendo la centralità del consumo nella costruzione del senso delle nostre vite. Il consumo non ha passato né futuro: è schiacciato sulla dittatura del presente.
Sembrerà un po’ naif, ma il mio invito è ad aprire le sedi sindacali ad iniziative rivolte alla cittadinanza, non solo in occasione delle ricorrenze, ma all’interno di un programma culturale e formativo soprattutto rivolto ai più giovani: ‘i mercoledì sindacali’, se volessimo dirla con una battuta. Ai più giovani non possiamo pretendere di offrire la liturgia della memoria, ma dobbiamo aiutarli a costruire le lenti utili alla comprensione del presente.
Sul fronte del lavoro, quelle che il documento chiama “le risposte adeguate alla complessità del momento” andrebbero cercate a partire dalla aggregazione fra le persone attorno ai problemi reali che le riguardono. I partiti, o meglio quel che resta di loro, hanno abdicato a questo ruolo; non a caso, non provano alcun imbarazzo (se non a parole) nel convivere con una legge elettorale, che sembra fatta apposta per alimentare il sentimento dell’antipolitica, allontanando i rappresentanti dai rappresentati. Del resto, la dissoluzione dei partiti è figlia della ideologia della fine delle ideologie, che descrive la politica come una pura tecnica fatta per risolvere problemi di natura oggettiva, al riparo da scelte di tipo ideale e valoriale. Invece, già l’individuazione dei problemi (prima ancora che delle soluzioni) ha natura intrinsecamente politica, perché esprime un punto di vista.
La sopravvivenza del sindacato – a mio avviso – si spiega in ragione del suo intrinseco collegamento con la condizione reale di chi occupa gli stessi luoghi e vive gli stessi problemi, pur nella frammentazione anch’essa antropologica del lavoro, che ne ha mandato in confusione le unità aristoteliche di spazio, di tempo, di contenuti, ecc.
Oggi è ben più difficile organizzare le persone che lavorano, soprattutto se si ambisce a farlo non in una logica micro-corporativa, ma provando a cambiare la società. Ma la direzione intrapresa da più di 20 anni dalla nostra legislazione del lavoro non si inverte depositando qualche emendamento, bensì ricostruendo fra le persone e, in primis, fra i lavoratori il consenso attorno ad un’altra idea di sviluppo e di progresso.
Partiamo dalla prima delle cinque azioni prioritarie indicate nel documento congressuale: ‘Aumentare i salari e riformare il fisco’. Dobbiamo prendere atto che la contrattazione collettiva, anche quando non subisce il blocco dei rinnovi, non sempre basta ad impedire la povertà salariale, persino nel lavoro stabile. Con quasi mille contratti collettivi nazionali, siamo di fronte ad un sistema sempre più disordinato, in cui le trasformazioni produttive fanno sfumare i confini tra settori merceologici, complicando ulteriormente l’individuazione del contratto collettivo applicabile. Sappiamo bene che alcuni sono siglati da organizzazioni di scarsa rappresentatività e servono proprio ad alimentare la concorrenza al ribasso sul costo del lavoro. E sappiamo pure che in settori di profonda debolezza negoziale neppure i contratti sottoscritti dai sindacati più forti riescono a impedire la fissazione di basse retribuzioni, per non parlare della frammentazione delle catene produttive, in cui lo shopping fra contratti collettivi può degenerare nel Far West salariale.
Non vedo controindicazioni nell’accogliere una proposta che associ il salario minimo al salario contrattuale, facilitando la misurazione della rappresentatività ed utilizzando la soglia legale solo come eventuale paracadute, che così non sottrarrebbe alla contrattazione collettiva la tradizionale funzione accrescitiva dei livelli retributivi (impedendo solo le spinte al ribasso) in aggiunta alla regolazione degli altri aspetti del rapporto di lavoro, che non si esauriscono nel salario.
Sul fisco, condivido il senso della Piattaforma unitaria Cgil, Cisl e Uil. Non si può negare che l’Irpef si sia ridotta ad una imposta sui redditi da lavoro dipendente e da pensione e abbia escluso dalla sua base di calcolo troppi redditi di altra natura. Questo era vero già prima. Ma quello che è avvenuto con il regime forfettario al 15% è veramente notevole e solleva dubbi di costituzionalità e, forse, persino di compatibilità con la disciplina europea sugli aiuti di Stato.
Sul fronte della regolazione del rapporto di lavoro, indubbiamente, vi sono diritti da riconquistare e soprattutto c’è tantissimo da riordinare e da riportare ad un minimo di coerenza sistematica, rispetto alle sfide e alle caratteristiche dell’attuale sistema produttivo.
La vicenda dei licenziamenti è emblematica. Siamo di fronte ad un quadro ormai divenuto ingestibile, dove la differenza fra le tutele dipende dalla data di assunzione, dal tipo di licenziamento e dalla gravità del vizio che lo affligge, dalla natura dell’impresa, dal numero dei dipendenti, per non parlare delle categorie di lavoratori esclusi dal computo dell’organico, ecc.: una moltitudine di regimi in cui è sempre più difficile districarsi. La giurisprudenza (in particolare, quella costituzionale) ha fatto quello che poteva, ma ovviamente senza potersi sostituire al legislatore.
Riprendendo un altro spunto del documento, non si può rinviare un serio ripensamento nel nesso tra formazione e lavoro. Si è radicata l’idea che la formazione in azienda sia intercambiabile con quella scolastica e universitaria e che, anzi, quest’ultima sia sempre meno necessaria per trovare un lavoro. Sentiamo dire che il problema non è il basso tasso di scolarizzazione, lo scarso numero di laureati, bensì l’inattitudine dei nostri giovani ad accettare lavori umili e manuali. Orbene, fermo restando che ogni lavoro merita di essere considerato come degno e, perciò, di essere adeguatamente tutelato, rimango convinto che l’accesso al sapere resti l’unico vero antidoto allo sfruttamento. La conoscenza è un fondamento della cittadinanza, un veicolo di dignità sociale: un bene che dobbiamo distribuire il più possibile, se vogliamo contrastare le crescenti diseguaglianze economiche e sociali. Con uno slogan mi verrebbe da dire che, anziché pensare solo a portare il lavoro nella formazione, occorrerebbe anche pensare a portare la formazione nel lavoro. Per questo, trovo inquietante il nesso tra svalutazione del sapere e precarietà del lavoro. La linea di tendenza degli ultimi decenni è stata quella di favorire l’instabilità del lavoro, così facilitando ulteriormente lo svuotamento di ogni investimento sulla formazione: perché mai l’impresa dovrebbe impegnarsi a formare un suo dipendente, se sa che questi – dopo qualche mese – farà posto a qualcun altro?
La formazione è il vero motore dello sviluppo, perché garantisce innovazione e non perpetuazione dell’esistente. Altrimenti, ciascuno di noi diventa un pezzo di ricambio facilmente sostituibile sul mercato. Abbiamo visto dove ci ha portato un modello di sviluppo fondato su questa visione.
Una parola finale vorrei dedicarla alla dimensione dell’azione sindacale, a cui è dedicata la seconda parte del documento. Il punto di maggiore condivisione riguarda l’impegno per un investimento straordinario sulla partecipazione e sulla democrazia nei luoghi di lavoro. Anche qui il documento è molto interessante. Non dobbiamo lasciare sulla carta le proposte più innovative che riguardano il futuro dell’azione sindacale, dal punto di vista della base e delle forme della rappresentanza, dei contenuti delle rivendicazioni da promuovere, delle pratiche da mettere in campo. Radicamento sul territorio e non più solo in azienda, contrattazione sociale, pratiche di mutualità, nuovi bisogni materiali da valorizzare, ecc.: tutte idee al passo con le sfide del presente, ma molto impegnative.
L’essenza della legittimazione democratica del sindacato è sempre stata nella capacità di intercettare la voce dei lavoratori, oggi sempre più consegnati ad una condizione di solitudine.
Sappiamo tutti che la maggioranza dei lavoratori è de-sindacalizzata, al massimo partecipa alle elezioni delle Rsu, per non parlare dei tanti, che non hanno neppure quella possibilità, per le dimensioni dell’impresa o per la tipologia del contratto. A questa larga platea dobbiamo rivolgere la nostra attenzione. Dobbiamo fare come Atene nell’antica Grecia, quando – contrariamente a Sparta – scelse di andare per mare e di includere i marinai, i non possidenti, nel corpo civico, concedendogli la cittadinanza.
È di marinai che abbiamo bisogno. E abbiamo bisogno di remare assieme a loro.