Basta una veloce riflessione per capire la differenza concettuale fra il “detenuto” lavoratore e il “lavoratore” detenuto. Nel primo caso il lavoro è considerato un accessorio della pena con funzione afflittiva e solo indirettamente volta al reinserimento sociale del detenuto, tanto che in epoche non troppo lontane si parlava ancora di “lavoro forzato”. Tale visione deve dirsi superata alla luce dell’evoluzione sociale e legislativa. Quest’ultima si è radicata nell’ordinamento italiano ad opera della riforma dell’articolo 20 e seguenti dell’ordinamento penitenziario (legge 354/1975) introdotta da D.lgs 124/2018, dopo che la Raccomandazione del Comitato dei ministri dell’Unione Europea del 12/2/1987 invitava gli Stati membri ad adottare provvedimenti che parificassero il più possibile il lavoro carcerario al lavoro libero.
La normativa prevede ora che l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario debbano riflettere quelli del lavoro “libero”, che la durata della prestazione non possa superare i limiti posti dalla normativa lavoristica, che la retribuzione debba essere commisurata a 2/3 di quella prevista dai Ccnl. Anche la Corte Costituzionale, con la sentenza 1087/1988, si era pronunciata sul diritto al lavoro dei detenuti, affermando che, superata la natura afflittiva della prestazione, non poteva dubitarsi che “il rapporto che ivi si instaura è disciplinato dal diritto comune negli elementi essenziali tra cui la retribuzione (…) per quanto non possa ritenersi che tale genere di lavoro sia del tutto identico (a quello libero, nds), specie per la sua origine, per le condizioni in cui si svolge, per le finalità cui è diretto e che deve raggiungere, non può assolutamente affermarsi che esso non debba essere protetto specie alla stregua dei precetti costituzionali (articoli 35 e 36 Cost.)”.
Lo stesso orientamento è stato espresso dalla sentenza della Consulta 138/2001, secondo la quale le particolarità del lavoro penitenziario “non valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato”. Infine, secondo le “Regole penitenziarie europee” (Raccomandazione R- 2006-2) “i detenuti che lavorano devono essere inseriti nel sistema nazionale della previdenza sociale” (articolo 26, punto 17).
Difforme da tale evoluzione concettuale e normativa si mostra la posizione negativa dell’Inps e del ministero della Giustizia riguardo al trattamento di disoccupazione dei detenuti che esplicano attività lavorativa all’interno dell’Istituto carcerario e in favore di questo (servizio di cucina, pulizie, assistenza a detenuti disabili, ecc.) nei periodi in cui non svolgono tali attività, in quanto il lavoro è fisiologicamente soggetto a turnazione (messaggio Inps 5/3/2019 n. 909 e circolare ministeriale 3681/6131 del 20/11/2018). Le motivazioni di tale orientamento vengono attinte, sia dall’Inps che dal ministero, dalla sentenza della Cassazione penale 18505 del 3/5/2006 che, richiamando la peculiare natura del lavoro svolto per l’Amministrazione penitenziaria e, in particolare,“la sua precipua funzione rieducativa e di reinserimento sociale”, afferma che tale lavoro non è equiparabile alle prestazioni svolte al di fuori del carcere. Tale motivazione attiene palesemente alla vecchia concezione cui sopra si è accennato e rimane un precedente ormai isolato, poiché la sentenza della Corte Costituzionale 341/2006 ha sottratto al magistrato di Sorveglianza la competenza delle controversie attinenti al lavoro carcerario, per affidarle alla magistratura ordinaria del Lavoro.
Allo stato attuale le pronunce in materia di diritto alla Naspi dei lavoratori detenuti da parte dei Tribunali del Lavoro sono assai scarse. Si segnala la sentenza del Tribunale di Torino del 25/3/2019 n.172, con la quale è stato riconosciuto il diritto all’indennità di disoccupazione al lavoratore detenuto che aveva svolto la mansione di cuoco all’interno del carcere per un lungo periodo, poi cessata a seguito della scarcerazione.
Rileva il Tribunale che la negazione di tale diritto impedirebbe al “lavoro penitenziario di espletare, con efficacia duratura nel tempo, quella finalità rieducativa e di reinserimento sociale che ne costituiscono invece l’essenza”, e che la privazione della Naspi sarebbe coincisa con il momento, particolarmente delicato, del reinserimento nel mercato del lavoro. Peraltro nella stessa sentenza si precisa che non sarebbe spettata l’indennità qualora il lavoro non fosse cessato per la scarcerazione, ma per decisione dell’Istituto carcerario in virtù della turnazione. E qui sta il problema.
Nel corso del 2019 l’associazione Antigone, la Cgil e l’Inca hanno predisposto un modello di ricorso avverso il rigetto da parte dell’Inps della indennità Naspi per i lavoratori detenuti. Poiché la posizione della Direzione centrale dell’Inps rimane, allo stato, ferma sul diniego, l’unica strada percorribile per far valere il diritto sarà quella giudiziaria.
Oltre alle argomentazioni relative alla funzione del lavoro carcerario cui si è fatto cenno, vi sono elementi utili per sostenere il diritto alla Naspi da una “storica” sentenza della Cassazione (1732/2003) che negò tale diritto per i lavoratori a part time verticale che durante i periodi di sosta avevano mantenuto l’iscrizione al collocamento. La motivazione della sentenza si imperniava sul carattere volontario della scelta (!) del lavoro part time, e fu avallata dalla Consulta perché questo tipo di lavoro assicura comunque una stabilità e una sicurezza retributiva che “impediscono di considerare costituzionalmente obbligata una tutela previdenziale (integrativa della retribuzione) nei periodi di pausa della prestazione” (sentenza 121/2006). Ma allora, come si può parificare il lavoro dei detenuti a tale situazione?
Ben più simile la condizione dei lavoratori stagionali che non hanno alcuna certezza di riprendere il lavoro nella stagione successiva, ai quali spetta, pacificamente, l’indennità Naspi, e che vennero presi come termine di paragone dalla sentenza 1732/2003 della Cassazione per negare la prestazione ai part time verticali. Non vi è dubbio che il “mercato del lavoro carcerario” sia estremamente aleatorio e spesso soggetto a essere utilizzato in funzione di premio-punizione dalla direzione dell’Istituto di pena, cosicché i carcerati non hanno alcuna certezza sul se, e quando, potranno avere di nuovo un lavoro.
Per il momento gli orientamenti della magistratura sono, come si è visto, assai prudenti, forse preoccupati di dare il via ad una rilevante fonte di spesa pubblica (quante volte ormai tale argomento, esplicitamente o meno, ha ispirato le decisioni delle Corti di legittimità chiamate a giudicare su diritti di origine previdenziale). Ma occorrerà tener conto, in ultima analisi, che il lavoratore detenuto versa il contributo per la Naspi, e che il lavoro svolto all’interno delle carceri risponde ad esigenze ineliminabili ed evita all’amministrazione penitenziaria di ricorrere ad appalti esterni, che certamente costerebbero molto di più alla collettività.