Dopo alcune scaramucce scoppiate tra i soldati azeri e quelli armeni alla frontiera tra i due Paesi nel mese di luglio scorso, sono riprese le ostilità alla fine di settembre e fino ad oggi non si è riusciti ancora a fermare gli scontri che continuano, con la prospettiva che possa allargarsi il conflitto anche ad altri Paesi di questa martoriata regione, a causa dell’intervento della Turchia di Erdogan che ha assicurato ogni aiuto all’ Azerbaigian e al suo presidente, mentre la Russia ha rafforzato la presenza dei propri militari alla frontiera.
Questa ultima fiammata di violenza sta ridisegnando le alleanze nella regione: “Da una parte ai due ‘paesi fratelli’ – scriveva La Repubblica del 5 ottobre – si è unita più o meno apertamente anche Israele che vende le armi a Baku in cambio del petrolio, mentre al fianco dell’Armenia è sceso anche l’Iran che sta inviando i suoi miliziani al fronte, per contrastare quello che considera l’espansionismo neo-ottomano nella regione”.
Un conflitto dunque riacceso dalla Turchia, che vuole riaffermare il suo predominio in questa parte del Caucaso e controllare la rotta del petrolio che da Baku arriva in Europa. Resta l’incognita russa, che ha sottoscritto un accordo con l’Armenia di intervento qualora fosse minacciata dall’altra ex repubblica sovietica.
Lo scontro è assai più duro rispetto alla guerra del 2016, che durò solo quattro giorni, e ciò è dovuto anche alle vicende interne dei due paesi. Da una parte l’Armenia ha fatto del Nagorno-Karabakh una bandiera del sentimento nazionale. Sul lato opposto due fatti hanno agevolato la deriva bellica: il crollo del prezzo del petrolio e il crescente malessere sociale.
Purtroppo, nel conflitto odierno il terreno degli scontri non ha riguardato le montagne del Nagorno-Karabakh ma tutto il confine tra l’Azerbaigian e l’Armenia, dove si confrontano i contingenti armati dei due paesi belligeranti.
Chi ha interesse a rinfocolare il conflitto? Sono intervenuti da una parte la Russia e dall’altra la Turchia, mostrando che lo scacchiere caucasico è di fatto il prolungamento della contesa sotterranea in corso tra i due Paesi in Libia, in Siria e nel Mediterraneo orientale. Si tratta dunque di uno scontro tra due potenze che non fanno mistero, soprattutto la Turchia, dello loro ambizioni. Mosca sarebbe ben disponibile a una mediazione, forte degli stretti rapporti che ha con entrambi i Paesi, consolidati anche dalle forniture di armi ad entrambi. Al contrario, Erdogan non ha esitato ad esprimere a Baku un appoggio anche militare, incoraggiandola a proseguire negli scontri.
Dopo che nella notte tra il 9 e il 10 ottobre i due Paesi avevano sottoscritto una tregua umanitaria, il 10 novembre - con la mediazione della Federazione Russa che si è vista assegnare il ruolo di peacekeeper con 2mila soldati sul campo – è arrivato un accordo per un “cessate il fuoco” presentato come definitivo, mentre secondo alcune fonti la guerra avrebbe già causato più di 5mila vittime tra civili e militari.
Ma quali sono le condizioni per arrivare ad una pace duratura? Per questo bisogna richiamarsi alle decisioni dell’Onu che sono state fino ad oggi rigettate dall’Armenia. Per una pace duratura bisogna escludere che questa guerra sia la prosecuzione del genocidio degli armeni, e che non si tratti dunque di un conflitto religioso tra cristianità e l’islamismo radicale. “L’abbandono di queste due grandi mistificazioni, aiuterebbe il cammino verso la pace” scrive il prof Vincelli dell’Università La Sapienza di Roma.
In questo conflitto il fattore “energetico” gioca un ruolo strategico, che spiega come questo focolaio potrebbe allargarsi ad un’area più vasta. Due oleodotti trasportano petrolio e gas dall’Azerbaigian attraverso il Caucaso passando a soli 60 chilometri dal Nagorno-Karabakh. Il conflitto potrebbe mettere in pericolo i due gasdotti, e quindi anche le speranze dell’Europa di sfruttare le risorse del Caspio per ridurre la sua dipendenza dalle forniture di greggio russo.
Anche l’Iran sembra aver fiutato l’affare Nagorno-Karabakh mettendo in allarme oltre ad Israele anche gli Usa. Intanto l’Ue ha annunciato l’invio di aiuti umanitari a tutta la popolazione civile, mentre il commissario per la gestione delle crisi ha manifestato estrema preoccupazione “per il deterioramento della situazione umanitaria, viste l’imminente stagione fredda e l’aggravarsi della pandemia di coronavirus”. I focolai di tensione alle porte dell’Europa continuano a preoccupare l’Unione, ma ancora più preoccupante appare la sua inazione politica malgrado la sua potenza economica, e pur essendo direttamente interessata a mantenere la pace dentro e fuori i suoi confini.
La crisi anche istituzionale che sta attraversando oggi l’Ue mostra quanto ormai sia urgente una riforma che possa modificare il sistema decisionale interno, sostituendo al principio “dell’unanimità” quello della maggioranza.