“La pace per vivere, la lotta per cambiare”. Era uno slogan di Democrazia proletaria della seconda metà degli anni ‘80, quella che vide padre Eugenio Melandri scendere in politica. La sua concezione rivoluzionaria della nonviolenza - non negazione del conflitto ma sua gestione altra e più alta - lo portò fin dagli anni della direzione di “Missione Oggi”, la rivista dei saveriani, a promuovere campagne per il disarmo e contro il commercio di armamenti. Spadolini arrivò a chiedere al Vaticano la sua testa e quella di padre Alex Zanotelli, direttore di Nigrizia, per l’efficacia e la popolarità della campagna “Contro i mercanti di morte”, coronata poi dal successo con l’approvazione della legge 185/1990, una delle più avanzate a livello mondiale sul controllo di produzione e commercio di sistemi d’arma.
Quando, nel 1988, con Stefano Semenzato scrisse il libro “Bella Italia, armate sponde”, in cui si tracciava minuziosamente la militarizzazione dell’Italia e la presenza delle basi Usa, lo Stato maggiore della Difesa dette l’ordine di acquistarne tutte le copie, pur di farlo sparire dalle librerie.
Ricordo il suo animo combattuto davanti alla nostra insistenza a candidarsi per Dp. Già alle politiche del 1987 ci aveva pensato a lungo ma poi lasciò perdere. Non se la sentiva di deludere i suoi fratelli saveriani, e temeva la chiusura di “Missione oggi” da parte delle gerarchie vaticane. Nel 1989, proprio mentre Dp si spaccava con la scissione dei Verdi arcobaleno, Eugenio decise di accettare la candidatura al Parlamento europeo. Sapeva che il candidarsi avrebbe comportato la sospensione a divinis e la riduzione allo stato laicale, ma non fece mai polemica su questo con la Chiesa.
Ricoprì il ruolo di parlamentare europeo con grande serietà e professionalità, e al contempo fu un parlamentare di strada, investendo larga parte di tempo e stipendio nell’associazione “Senzaconfine”, la prima su scala nazionale del movimento antirazzista. Lo ricordo nelle continue visite ispettive alle carceri nel ricercare una soluzione politica agli anni di piombo, nel suo impegno con i braccianti d’Isola Capo Rizzuto per impedire l’espianto degli ulivi secolari che dovevano fare posto alla base Usa degli F16. Ed ancora il suo impegno per l’Africa, di cui i suoi fratelli saveriani erano fonte continua d’informazione, che si traduceva a Strasburgo in interrogazioni e proposte di risoluzioni.
La sua interlocuzione con la parte più avanzata della chiesa dei poveri non venne mai meno negli anni del mandato istituzionale. Con don Gallo, Balducci, Bettazzi, Turoldo e tanti altri aveva un confronto continuo, si sentiva parte di quella storia. Con don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi, ebbe un rapporto speciale. Li ricordo insieme entrare alla testa di 500 pacifisti, nella Sarajevo assediata. Quel giorno anche gli sniper fecero tacere i loro fucili, e l’Onu dei popoli arrivò dove l’Onu dei potenti aveva fallito.
Se Dp era stata la sua seconda famiglia, non si può dire altrettanto per Rifondazione comunista, alla quale aveva aderito con entusiasmo. Eletto deputato nel 1992 nella circoscrizione Varese-Como-Sondrio, a Montecitorio Eugenio trascorrerà solo qualche settimana in omaggio al principio interno che vietava di ricoprire allo stesso tempo due mandati istituzionali. Questa regola non valse nei suoi confronti, quando si ritrovò primo dei non eletti nelle due circoscrizioni del nord Italia. Non rientrò più al Parlamento europeo, e venne marginalizzato dal partito stesso.
Eppure Eugenio ebbe la capacità di riallacciare un rapporto umano e di confronto politico con Fausto Bertinotti e con gli iscritti al partito, con i quali mantenne uno stretto contatto. Con l’attuale segretario di Rifondazione, Maurizio Acerbo, c’era invece un legame meno formale, più dettato dalla comune ricerca di dare una risposta alla crisi della sinistra italiana, che appare come irreversibile.
Non affiliato a nessuna corrente, allergico allo scontro interno (lo reputava tempo sottratto alla lotta) Eugenio ha continuato ad essere punto di riferimento del movimento pacifista. Componente del comitato dei garanti di Un ponte Per, presidente dell’associazione Obiettori Nonviolenti, animatore della campagna “Chiama l’Africa”, direttore della rivista “Solidarietà Internazionale”, fino all’ultimo non ha mai fatto mancare la sua voce e l’impegno per gli ultimi e i diseredati.
Poi i morsi del “drago”, come chiamava la malattia che lo aveva colpito negli ultimi anni, il ritorno alla casa dei saveriani, la decisione senza precedenti di reintegrarlo nella chiesa da parte di Papa Francesco e il ritorno all’esercizio sacerdotale senza aver mai rinnegato il suo impegno politico (compagno, amava ripetere, è una parola impegnativa e bellissima). Appena una settimana prima di morire era tornato a celebrare la messa. Il suo ultimo desiderio era poterla dire sulla tomba di don Tonino Bello. Le sue ultime parole scritte sono state per il popolo curdo. Il drago se lo è portato via. Ma senza mai riuscire a strappargli il suo meraviglioso sorriso.