Le diseguaglianze che lacerano il “popolo” - di Monica Di Sisto

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Le periferie delle nostre città si sono improvvisamente riempite di odiatori e razzisti, oppure in quei quartieri impoveriti si gioca una partita importante per la giustizia sociale e la democrazia? Per rispondere a questa domanda senza darsi alibi è utile incrociare la lettura di due volumi di recente pubblicazione.

“Popolo chi?: classi popolari, periferie e politica in Italia”, a cura di Niccolò Bertuzzi, Carlotta Caciagli, Loris Caruso (Ediesse, 2019), presenta e analizza i risultati di una ricerca (ottobre 2017 - ottobre 2018) nelle periferie di Milano, Firenze, Roma e Cosenza. Attraverso 60 interviste in profondità, il gruppo di ricerca ha cercato di portare alla luce tre grandi questioni: le condizioni sociali dei quartieri popolari, il rapporto degli intervistati con la politica (sia istituzionale sia la partecipazione dal basso), e con i media e l’informazione.

“Le mappe della disuguaglianza. Una geografia sociale metropolitana” a cura di Keti Lelo, Salvatore Monni, Federico Tomassi (Donzelli editore, 2019) contiene, invece, una dettagliata serie di mappe a colori che, censendo servizi di base, livelli di reddito e di istruzione, traccia una geografia delle disuguaglianze tra i quartieri della capitale, in un confronto inedito con le città metropolitane di Milano, Napoli e Torino.

Sovrapponendo le due analisi, l’immagine che ne emerge è terribilmente coincidente. Prendiamo i quartieri periferici di Roma - Tor Sapienza, Tiburtino III e poi Torre Maura - protagonisti nell’ultimo anno di vere e proprie rivolte contro migranti o nomadi, fomentate da politici di destra e movimenti neofascisti. Dalle “Mappe della diseguaglianza” scopriamo che sono quelli con i peggiori indicatori di disagio socio-economico e con il reddito più basso. Non sono così lontani dal centro, ma i mezzi di trasporto pubblici sono malandati e insufficienti. I residenti accedono a servizi essenziali - sanità, uffici comunali decentrati, istruzione - sovraffollati e stremati, sui quali si concentra la concorrenza con i “nuovi arrivati” da altri paesi. Concorrenza fisica e diretta per le case popolari del Comune o dell’Ater, costruite negli anni ’70 e ’80, le uniche disponibili ed epicentro delle eruzioni più violente di intolleranza e odio sociale.

Se scopriamo infine che le percentuali più elevate di residenti con licenza elementare o nessun titolo di studio si riscontrano proprio nei quartieri popolari esterni o vicini al Gra, e che ai Parioli ci sono otto volte i laureati di Tor Cervara, ci viene restituito un quadro più complesso di quello fornito da media e politici, che spesso questi quartieri non sanno nemmeno dove si trovano. A Roma, ma anche a Milano e Torino, la distanza tra periferie e centro è soprattutto sociale, e l’odio per il diverso più debole si scatena nella concorrenza per l’accesso a servizi pubblici spesso scadenti e sottodimensionati.

Con le interviste di “Popolo chi” possiamo ascoltare le voci degli abitanti di quei quartieri. Che cosa raccontano? Che l’emergenza italiana è soprattutto la mancanza di lavoro, “legata a doppio filo a situazioni di precarietà, insicurezza economica e assenza di tutele minime”, spiegano i ricercatori. Secondo gli intervistati, non comanda la politica ma il potere economico, i grandi imprenditori, le banche, l’alta finanza. La politica è “subalterna” a questi gruppi di potere, secondo diverse interviste. I politici dunque sono assoggettati al vero potere: ne eseguono gli interessi per mantenere la “poltrona”. Sono, secondo il “popolo”, privilegiati come gli “ultimi degli ultimi”, gli immigrati “in uno strano mix che identifica queste due categorie come accomunate dall’opposizione rispetto al ‘popolo’”.

Si accusano i partiti di somigliare troppo a imprese private. Il fatto di vederli solo in campagna elettorale per fare promesse, e poi non vederli più, è una delle accuse più generalizzate. Una critica che “colpisce soprattutto la sinistra – rileva la ricerca - perché è la parte politica a cui si chiede di più in termini sia di differenziazione dalle altre, che di capacità di difendere in modo disinteressato gli interessi collettivi”. La sinistra però “è sostanzialmente assente dalla vita e dalla coscienza degli intervistati. Non c’è sul territorio e non c’è nella narrazione personale e collettiva”. “Impressiona anche la mancanza di distinzioni all’interno della sinistra, che è sostanzialmente accomunata al Pd”, sottolineano.

Il “popolo” però non rinuncia a voler “essere governato”, guidato. “C’è quasi un’invocazione al ritorno di una politica forte, una voglia di autorità e di ordine”. Si chiede più Stato: più servizi, più efficienza istituzionale, più rispetto dei rispettivi diritti e doveri. Il “popolo” solo in rari casi vuole partecipare alla vita dei partiti: vorrebbe che avessero un leader forte, che facesse quello che dice. Un quadro spiazzante per quanto nitido, soprattutto scomodo. Una sfida che è solo possibile raccogliere con responsabilità e capacità, oppure perdere per sempre.

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