Per garantire ai lavoratori il diritto costituzionale di esprimere liberamente il proprio pensiero, è opportuna una definizione normativa che distingua tra il diritto di cronaca e il diritto di critica, come proposto dalla Cgil nella Carta dei diritti universali del lavoro.
Accade spesso che venga irrogata una sanzione disciplinare al lavoratore che esprima con toni più o meno accesi e “coloriti” il proprio dissenso da comportamenti datoriali anche al di fuori della dialettica della trattativa o della lotta sindacale. Nel caso, cioè, che il singolo lavoratore o un gruppo di lavoratori, magari usando i moderni strumenti di comunicazione social o informatici, critichi apertamente l’operato del datore di lavoro o dei suoi preposti sotto molteplici aspetti, omissivi o fattivi, ma comunque ritenuti lesivi di diritti delle maestranze.
Senza entrare nel merito a ipotesi di vero e proprio reato (calunnia, diffamazione, minacce), valutabili solo sotto il profilo del caso concreto, si deve rammentare che il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero è costituzionalmente garantito dall’articolo 21 della Carta Costituzionale e che lo Statuto dei lavoratori, all’articolo 1, riprende questo concetto, sancendo la libertà di manifestare il proprio pensiero nei luoghi di lavoro. Tali principi, peraltro, non dettano (e non potrebbero, vista la loro collocazione normativa “elastica”) regole precise per bilanciare il diritto di critica del dipendente con quello della libertà delle scelte imprenditoriali (articolo 41 Costituzione.).
L’interpretazione giurisprudenziale si è oltremodo soffermata sulla libertà di espressione nell’ambito della dialettica sindacale, ammettendo una dilatazione del diritto di critica a fronte del diritto all’integrità morale e personale sia del datore che del sindacalista, pur tenendo conto del contesto complessivo in cui tale eventuale eccesso si va a collocare.
Peraltro, come si è detto, una tutela specifica del singolo lavoratore che esprima disapprovazione o deciso dissenso verso il datore o i superiori non trova una definizione, se non in principi di carattere generalissimo. Tanto che spesso si è confuso il diritto di critica con il diritto di cronaca, affidando cioè alla verifica fattuale delle circostanze su cui la critica è stata formulata la sanzionabilità della condotta dal punto di vista disciplinare, arrivando, in innumerevoli casi, al licenziamento per insubordinazione.
Non può sfuggire la differenza tra le due ipotesi. La cronaca si risolve in una descrizione di un dato fatto o comportamento, pur potendo esprimere una visione soggettiva che ne dia una connotazione in senso positivo o negativo. Mentre il diritto di critica è un’aperta manifestazione di dissenso, una vera e propria censura che denuncia errori, scorrettezze o inadeguatezze dell’operato datoriale o di chi per esso e che innesta un peculiare conflitto, dal quale può scaturire un procedimento disciplinare.
La valutazione di questo comportamento deve essere complessa in relazione al contesto in cui si è svolto (ad esempio se vi è stata provocazione da parte del superiore o una mancata considerazione di problematiche inerenti lo svolgimento o le modalità della prestazione lavorativa pur legittimamente evidenziate dal lavoratore). E soprattutto considerando anche l’elemento soggettivo, cioè la buona fede del lavoratore nel rappresentare una situazione “oggettivabile”, anche se non corrispondente alla realtà.
Certo la valutazione del “caso per caso” è inevitabile, soprattutto laddove si tratti di valutare la proporzionalità della sanzione irrogata al fine della illegittimità del licenziamento per giusta causa. Ma una definizione normativa che distingua decisamente tra il diritto di cronaca e il diritto di critica, allo scopo anche di contenere difformi valutazioni a seconda dell’orientamento o comunque della personale visione dei rapporti da parte di un giudicante, si renderebbe oltremodo opportuna, dato che il lavoratore, pur “subordinato”, rimane pur sempre una “persona” anche entro i confini dell’azienda.
Non a caso anche di questi aspetti si è occupata la Carta dei diritti universali del lavoro – Nuovo Statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori elaborato dalla Cgil (proposta di legge C. 4064) che, all’articolo 6, stabilisce che la libertà di manifestazione del pensiero “comprende quella di contribuire alla cronaca, nel rispetto del segreto aziendale, e alla critica relativa al contesto lavorativo e alla attività in esso svolta”.