Ci sono voluti circa quaranta giorni per votare nella più grande e popolosa democrazia del mondo. Stiamo parlando dell’India, dove appunto dall’11 aprile fino al 19 maggio centinaia di milioni di persone, quasi un miliardo, si sono recate alle urne in un percorso elettorale organizzato in sette differenti fasi.
A vincere è stata l’Alleanza nazionale democratica (Nda), la coalizione nazionale e conservatrice guidata dal Partito popolare indiano (Bjp) del primo ministro Narenda Modi, che così si è avviato a ricoprire di nuovo il ruolo di premier. Un’affermazione schiacciante: i vincitori hanno ottenuto infatti 345 seggi dei 542 disponibili, contro la coalizione di opposizione, guidata dallo storico Partito del Congresso di Rahul Gandhi, alleata dell’Upa (Alleanza progressista unita) che ha conseguito solo 79 seggi. A seguire la coalizione Mgb (Mahagathbandhan), che si pone come terza forza contro le due principali del paese e che ha ottenuto 19 seggi, mentre tutte le altre formazioni politiche si sono suddivise i restanti 99.
L’affermazione di Modi era tutt’altro che scontata, visto che nelle recenti elezioni locali, tenute in tre Stati, la sua formazione politica era stata sconfitta. Ma poi, come abbiamo detto, le cose sono andate diversamente, tanto che nello stato dell’Uttar Pradesh, storicamente associato ai Gandhi, Rahul è stato invece battuto.
Durante la campagna elettorale i due principali contendenti hanno focalizzato l’attenzione soprattutto sulle questioni economiche. Modi aveva promesso dieci milioni di posti di lavoro, anche se lo scorso gennaio era stato diffuso un dato non proprio confortante che parlava di un aumento della disoccupazione, 6,1%, nel periodo 2017-18, il più alto negli ultimi quarantacinque anni. Il Partito del Congresso, dal canto suo, aveva promesso un reddito minimo garantito al 20% delle famiglie più povere del paese.
La vittoria di Modi conferma come il nazionalismo induista sia molto radicato nell’India del terzo millennio, e ricco di insanabili contraddizioni. Il suo programma è tuttavia molto chiaro: la sicurezza nazionale caratterizzata dalla lotta contro il terrorismo di matrice islamica; un rilancio dell’economia indiana con l’obiettivo di farla diventare la terza nel mondo dopo Stati Uniti e Cina; e poi investimenti sul piano sociale, dal raddoppio del reddito degli agricoltori entro tre anni, alla garanzia di ottenere la pensione per coloro che hanno superato i 60 anni di età.
Nell’ambito di questo programma, che punta a far fare un salto in avanti a una nazione già sulla strada di una modernizzazione sia pure, come dicevamo, ricca di contraddizioni, non manca appunto un’attenzione importante all’elemento religioso. Nel programma di Modi c’è anche la costruzione di un tempio dedicato a Ram nel sito di Ayodhya, là dove nel ‘600 sorgeva una moschea Moghul distrutta circa un decennio fa da estremisti indù. Questa decisione, unita al fatto che il governo intende cancellare l’articolo 35 della Costituzione indiana che assegna al Jammu e Kashmir lo statuto di Regione speciale, desta più di una preoccupazione, perché potrebbe rinfocolare le tensioni con le altre minoranze religiose del paese, in primo luogo appunto gli islamici, e con il vicino Pakistan.
Anche nel programma dello sconfitto Rahul Gandhi era previsto un reddito minimo garantito per le famiglie più povere, oltre a una serie di misure per far aumentare l’occupazione, modificare il sistema di tassazione, rivedere le leggi sul lavoro femminile, la creazione di un’agenzia speciale di investigazione sui tanti crimini che vengono commessi in India contro donne e bambini, e una quota rosa del 33% in Parlamento.
La sconfitta di Gandhi e la riconferma di Modi non sono un elemento positivo in un paese già gravido di tensioni e conflitti interetnici. Le tensioni con il Pakistan - già aggravate dall’attacco kamikaze che lo scorso 14 febbraio ha mietuto 42 vittime e al quale aveva fatto seguito il bombardamento da parte di Nuova Delhi che aveva provocato 350 morti - potrebbero verosimilmente aumentare. Sull’altro piatto della bilancia ci sarà, da parte di Modi, l’intenzione di dare nuovo impulso all’economia indiana, con l’obiettivo di sfidare la Cina e trasformare l’India nel principale partner-concorrente di Pechino. E nello stesso tempo contenere l’espansione cinese nell’area, attraverso lo sviluppo della Quad, l’alleanza quadrilaterale con Usa, Giappone e Australia.