L’artista si trova a Caracas, da dove ci invia testimonianze dirette che saranno pubblicate anche nei prossimi numeri.
Tutti vi dicono che in Venezuela la vita è carissima, che la delinquenza massacra l’economia e la quotidianità, che la gente cerca il cibo nella spazzatura. Ebbene sì: la vita è carissima, dal momento che un pacchetto di farina di mais può arrivare a costare anche tre euro, e uno di farina di tipo zero forse di più. Mentre uno stipendio è di circa cinque euro, con le oscillazioni dovute ai tassi di cambio massacrati dall’iperinflazione. Ma esiste una forma di assistenza verso i più deboli di cui, in Europa, pare ricordarsi solo la Caritas nel periodo natalizio, o con l’allestimento di mense popolari dove, ormai, anche gli appartenenti a quello che una volta era il ceto medio vanno a mangiare o a prendere buste di spesa.
Esiste il Clap, la cesta di beni alimentari che viene distribuita per pochi centesimi di euro, esistono i buoni per le famiglie, e con altrettanti pochi centesimi di euro si pagano le bollette di luce e gas. L’acqua è gratuita in quasi tutto il paese. E, udite udite, il pieno di benzina in un veicolo di grossa cilindrata si fa con un biglietto da 100 bolivares (un euro, adesso, ne vale circa 4.000), e il costo di una tratta autostradale di circa 200 chilometri si fa sempre con lo stesso biglietto da 100. Un pullman, per la stessa distanza, costa circa mille bolivares.
Prima di sparlare, sarebbe sempre bene avere una calcolatrice alla mano e fare i conti in proporzione. In Italia come vive chi lavora in un call center per 400 euro mensili? Quanto paga di bollette? Quanto di affitto, spesso diviso fra più persone? Poi è vero: in Venezuela si fanno lunghissime code per prelevare pochi contanti nelle banche, comprare un’aspirina è roba da privilegiati, e si possono anche vedere persone che rovistano nei cassonetti per cercare cibo. Ma queste scene non sono familiari anche a noi da diversi decenni, nelle nostre città del primo mondo? Anzi, la prima cosa che mi viene in mente, pensando ai servizi che i telegiornali fanno sul Venezuela, è il ricordo di gente che, da noi, nei cassonetti ci ha vissuto, ci ha mangiato, e ci è pure morta, triturata dalle pale dei camion che raccolgono i rifiuti.
Ora veniamo alle cose pratiche. In Venezuela non si produce quasi più niente, si sente dire dai più. E perché non si produce più niente? Perché i pezzi di ricambio per i macchinari (che sono, anche questi, come nella maggior parte del mondo, di produzione estera) sono quotati in dollari, e l’iperinflazione a cifre irragionevoli ne blocca l’importazione. Oltre alle sanzioni economiche imposte già dal 2014, che costringono il governo a fare triangolazioni strane, facendo viaggiare i prodotti per mezzo mondo prima di sdoganarli qua. Un esempio? Fino a qualche mese fa, prima di Bolsonaro in Brasile, molti ricambi per le auto, anche militari, venivano comprati agli Stati Uniti dal governo brasiliano (persino dal terribile Temer), e il governo brasiliano li rivendeva a Caracas. Certo senza troppi sconti. Ma comunque entravano. Mentre adesso, con la chiusura che il neonazista presidente brasiliano sta portando avanti contro il governo di Maduro, da quel paese non entra manco un pacchetto di noccioline.
Ancora: in Venezuela ci sono continui blackout, provocati a seguito di un sabotaggio del sistema di fornitura elettrica. Ed è chiaro che poi subentrino problemi legati alla manutenzione: sempre di ricambi per il sistema di alimentazione (distrutti a causa dell’attacco) stiamo parlando.
Date le circostanze, com’è che la gente qua non crede alle balle che vengono propagandate all’estero? Semplice: vede con i propri occhi. La gente vede i rivenditori aumentare i prezzi da un giorno all’altro senza motivo, la gente sa che è meglio tenere duro adesso piuttosto che fare un salto nel passato di trent’anni, quando la loro presenza era solo figurativa.
In Venezuela c’è una parte che sostiene Juan Guaidò. Se non ricordo male, lui è stato eletto in Parlamento con 97.492 voti. Luigi De Magistris, come sindaco di Napoli, è stato votato da quasi 190mila persone. Dovrebbe forse autoproclamarsi presidente dell’Unione europea?