Messina, nate senza camicia - di Frida Nacinovich

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Ancora oggi, a distanza di dieci anni, resta il rimpianto per quello che poteva continuare ad essere ma non è stato. Perché la Camiceria Castello era un bell’esempio di made in Italy di qualità. Perché migliaia di giovani ragazze siciliane, in una terra storicamente avara di opportunità di lavoro, avevano potuto coltivare il sogno di una vita indipendente. Perché il “saper fare” era stato marchio distintivo di generazioni di operaie specializzate. Un mestiere - industriale ma con un dna artigiano - di cui a parole si lamenta sempre la mancanza. Salvo poi abbandonare al proprio destino chi per quarant’anni aveva reso possibile un piccolo grande miracolo economico.

Dieci anni dopo, che ne è stato delle ragazze di Brolo, nel messinese, dove la Camiceria Castello aveva la sua sede principale? “Abbiamo cercato di reinventarci, ne abbiamo provate tante”, racconta una di loro, Tina Traviglia. Lei, che era addetta a confezione e campionatura, torna con il pensiero a quei giorni ed è come se nell’animo si riaprisse una ferita ancora fresca. “Ero fiera del mio stipendio guadagnato lavorando in un’azienda che faceva prodotti di qualità”, spiega. “Un lavoro vero, pagato secondo contratto collettivo nazionale, con i riposi, le ferie. Per me, che ero giovanissima, c’era la possibilità di fare un mutuo per comprare casa. Di costruire passo passo un progetto di vita. Molti dei nostri mariti lavoravano in edilizia, e quello è un mestiere per sua natura precario”.

Poco più di cento dipendenti lavoravano all’interno di un distretto del tessile di tutto rispetto, composto da decine di piccole imprese collegate ad alcune delle più grandi firme della moda. Un circuito virtuoso, che nei momenti migliori vedeva impegnate alcune migliaia di ragazze. “Quando arrivò la crisi - sottolinea Traviglia - eravamo preoccupate, ma ci dicevano che le cose sarebbero andate meglio, si sarebbero aggiustate, che sarebbero intervenute anche le istituzioni. Abbiamo difeso il nostro lavoro con le unghie e con i denti, presidiato la fabbrica insieme alla Cgil, proposto contratti di solidarietà per continuare a lavorare tutte anche se con tagli allo stipendio. Abbiamo scioperato, manifestato a Palermo sotto il palazzo della Regione, con un caldo tropicale. Ma è stato tutto inutile. Dopo tre anni, nel 2011, fummo licenziate”.

Quasi tutte le ragazze avevano iniziato a lavorare giovanissime, assunte alla Castello e alla collegata Ite tra i 20 e i 25 anni. “Amavo il mio lavoro, l’ho fatto per tanto tempo, ho avuto anche delle promozioni per merito. Guadagnavo 1.300, 1.500 euro al mese per lavorare cinque giorni la settimana. Anni di lavoro come dio comanda”. Ma dopo quindici, vent’anni di professione, sono state costrette a ricominciare da capo. “Gli ammortizzatori sociali erano l’unico mezzo, almeno nel breve periodo, per continuare a pagare i nostri mutui. Gli ultimi mesi non siamo state pagate, e di quel periodo ci è stato reso ben poco”. E poi? Quando si chiede a Angela Princiotto che fine abbiano fatto le ragazze della Castello, lei cerca di dare una risposta utilizzando l’arma, tutta siciliana, dell’ironia. “Dire che ci siamo reimpiegate è una parola grossa. Ci siamo rimboccate le maniche. Oggi abbiamo sui cinquant’anni e in media più di vent’anni di contributi versati. Il problema è che il lavoro è diventato un miraggio”.

Molte di loro hanno seguito la strada, faticosa, della riqualificazione professionale, frequentando - e pagando - corsi per operatore sanitario e socio assistenziale. Angela ha lavorato alla Castello per 27 lunghi anni. “Che si voglia o no, un bel pezzo della mia vita l’ho passata lì. Compreso l’ultimo difficile periodo, quando eravamo rimaste per sette mesi senza stipendio. Le abbiamo provate tutte per salvare la nostra fabbrica”.

La confezione di una camicia, o di un abito, è un procedimento complesso, in catena di montaggio c’è chi stira, chi fa occhielli, asole, polsini, colli, chi controlla la qualità del prodotto finito. “Per entrare in fabbrica ho smesso di studiare, non credevo che dopo così tanto tempo sarei dovuta tornare sui libri. Ho fatto la babysitter, ho preso quel che trovavo. Ma a diciannove anni ero già mamma, e mantenere una figlia studentessa costa”. Ora che ha passato la cinquantina Angela Princiotto è una precaria, per giunta con addosso i segni di quasi trent’anni davanti alla macchina da cucire. “Alla fine la schiena ne risente, sono stata anche operata”.

Tina e Angela non sono donne che si arrendono, ma nei loro racconti si riflette la crisi dell’intero Mezzogiorno, mezzo paese dove è sempre più difficile riuscire a far quadrare i conti a fine mese. Eppure l’amore per il lavoro, quello vero pagato tutti i mesi, e magari con la possibilità di andare a fare due settimane di vacanza, resta. Così come la speranza.

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