Immaginate di essere sul posto di lavoro a Milano e di ricevere la notizia che un familiare ha avuto un incidente a Lodi, a quaranta chilometri di distanza. La cosa più naturale da fare è correre verso l’ospedale che, dalle nostre parti, può essere raggiungibile con autobus, taxi, con un veicolo proprio. In poco tempo potete essere là, a parlare con i medici, a capire la situazione. E vi possono raggiungere parenti, amici, per darvi supporto, aiuto.
Adesso immaginate di essere in Palestina e che a un vostro caro succeda qualcosa a Gerico mentre voi siete a lavorare a Ramallah. Sono gli stessi quaranta chilometri, ma raggiungere il vostro parente è tutt’altro che scontato. Si devono passare i check point per transitare in territorio israeliano perché, nonostante Gerico sia sotto l’Autorità Palestinese, il percorso è interrotto dalle colonie che si sono installate là e che Israele considera proprio territorio e “protegge” militarmente. Sempre se i check point sono aperti, perché se un funzionario decide di chiudere i cancelli, si chiudono e stop, ad una qualsiasi ora, di un qualsiasi giorno. Tutto intorno si vedono persone sedute, in attesa che riaprano, che ci sia la speranza di passare, perché in territorio israeliano entrano solo i palestinesi che hanno la “ID card”, ovvero il documento che gli viene “concesso” quando lavorano in territorio israeliano. Vicino ai check point qualcuno resta anche a dormire per aspettare che tornino ad essere valicabili i cancelli di ingresso, con il freddo di gennaio.
Per spostarsi anche di soli dieci chilometri bisogna subire perquisizioni personali, affrontare posti di blocco improvvisati che possono farti perdere quattro ore. Che tu sia in un autobus dal quale devi scendere per consegnare i documenti ed essere controllato, oppure che tu sia con la tua auto, per far un controllo del veicolo, consegnando le chiavi in mano all’esercito israeliano per la perquisizione che può durare anche quattro ore, non fa differenza. Devi armarti di pazienza e vivere in questo modo, aspettando sotto al sole, o sotto la pioggia, nei luoghi più isolati in mezzo al deserto, sentendoti un po’ il giochino dei militari che ti guardano con disprezzo, molto spesso somali, eritrei o etiopi inglobati nel sistema di questo Stato ebraico, come in “un’annessione umana” di convenienza.
Un percorso di quaranta chilometri diventa un viaggio di ore, quando va bene, altrimenti di giornate intere. Ed anche in questo caso, se si vogliono percorrere le strade principali e passare dal territorio israeliano (perché le strade della Palestina sono rimaste sterrate e impraticabili per buona parte e ci vogliono veramente giorni di viaggio per arrivare), l’auto deve avere la targa gialla con scritto IL e non può avere la targa bianca della Cisgiordania. Come se quando, quando avevamo le sigle delle città, avessimo dovuto circolare solo nella provincia di residenza.
Adesso ditemi: non vi gira la testa? Questo è quello che fanno i palestinesi, da decenni. È quello che fa il dottor Mohammad Awwad Amer per fare il suo lavoro, per salvare vite. Mohammad dorme spesso in ospedale, su una brandina o un materasso, perché i turni non gli danno il tempo di tornare a casa, come tanti altri sanitari che lavorano con lui. Cerca di non ammalarsi, di non fermarsi perché, soprattutto adesso, con l’emergenza, c’è sempre bisogno di un medico in questa Terra Santa. Mohammad racconta: “Anche in Cisgiordania ci sono feriti di cui si parla meno, perché sono coloro che si salvano ma sono sempre feriti per gli attacchi israeliani che, quotidianamente, mettono sotto scacco anche i campi profughi o città come Nablus, Jenin, Tulkarem. Il governo di Tel Aviv dice che anche là, come a Gaza, ci sono i terroristi, perché per Israele noi dovremmo andarcene, lasciare questa terra dove siamo nati, dove siamo cresciuti e noi resistiamo. La nostra resistenza è chiamata terrorismo dai governi di tanti paesi occidentali, ma cosa dovremmo fare? Scomparire?”.
Anni fa Giulio Andreotti fu chiaro, chiarissimo: “Nel ‘48 l’Onu ha creato lo stato di Israele e lo stato palestinese, ma lo stato di Israele esiste, lo stato palestinese, no. Se fossi nato in un campo profughi palestinesi del Libano, forse sarei diventato anch’io un terrorista”.
Il dottore, che ha studiato a Perugia, non si rassegna e continua a fare la sua battaglia quotidiana contro il tempo, correndo con un’auto o un’ambulanza, correndo in una corsia di ospedale o in una sala operatoria. Non si rassegna e prova a tranquillizzare bambini amputati senza anestesia che arrivano da Gaza in stato di choc, che sono già fortunati ad uscire grazie ai cordoni di sanitar (illegali per gli israeliani) che aspettano giorni ai valichi per salvare una vita, una sola vita in più. L’ottanta per cento dei bambini di Gaza ha perso almeno un arto, migliaia sono morti nell’indifferenza totale, senza un’anagrafe attiva, dopo giorni e giorni di stenti senza cibo e persino senza acqua.
Qua, a Ramallah, ci si sente fortunati, lontani dall’inferno. Ma con la consapevolezza che l’inferno, in pochi giorni, può arrivare anche sotto casa, e che pure da questa “casa Cisgiordania” non si può uscire se non passando per Israele. Quando ti strappano il cuore con dei morsi feroci, quando da più di un secolo la tua dignità dipende dalla voglia altrui di trattarti come un oggetto, quando devi abbandonare tutto perché casa tua non è più casa tua, quando tuo fratello, tua madre, tuo padre, vengono smistati nei più svariati stati confinanti, non puoi che radicalizzarti. Morire o morire. Non c’è differenza: cristiano o musulmano, ateo o agnostico. Perché in Palestina, ricordiamolo sempre, già dal 2006 i candidati cristiani sono stati eletti nelle liste di Hamas. A Betlemme, Beit Jala, Beit Sahour, e qua, nella stessa Ramallah, era normale avere liste miste con sindaci cristiani appoggiati dal movimento islamico. Ma di questo non si parla, non si dice che – oggi più che mai – la resistenza dei palestinesi non fa differenza fra le due religioni: è la resistenza e, come la storia ha voluto anche in Europa, esiste un’alleanza fra scuole politiche diverse, fra persone di estrazione culturale diversa, di religioni diverse.
Come si dice qua, è “Sumud”, che in arabo è la fermezza che hanno le radici degli alberi quando attecchiscono bene nella loro terra.