Julian Assange è libero ma l’informazione resta in libertà vigilata - di Enrico Ferri

Una grande e potente mobilitazione globale della società civile contro il silenzio e le complicità, un agguerrito collegio legale, la volontà irriducibile della moglie Stella Morris e della famiglia di Julian hanno portato, secondo il coordinatore di articolo 21 Vincenzo Vita e Donatella Mardollo, attivista del comitato veneto per Assange, alla liberazione del giornalista australiano, 52 anni, undici dei quali passati in segregazione, prima nell’ambasciata ecuadoregna (2012-2019), e gli ultimi cinque nel carcere speciale di Belmarsh di Londra.

Una saga giudiziaria e politica che, afferma l’ex magistrato Armando Spataro, ha visto piegarsi al cospetto della ragione di Stato americana la Svezia, la Gran Bretagna, la Spagna, l’Ecuador, buona parte della stampa internazionale e non ultima la magistratura, che ha dimostrato un certo deficit d’indipendenza.

Ma l’insistenza delle manifestazioni per Assange in tutto il mondo ha sortito una serie di effetti: le pressioni del primo ministro australiano laburista, Antony Albanese, verso gli Stati Uniti e la Gran Bretagna per chiudere una vicenda giudiziaria “durata anche troppo tempo”; l’opposizione all’estradizione da parte di Jill Edwards, relatrice speciale Onu contro la tortura; la sentenza dell’Alta Corte di Londra, che ha accettato il ricorso dei legali di Assange; l’intenzione di Biden, in forte difficoltà sul piano elettorale, di declassare i capi d’imputazione di Assange. Questo insieme di eventi ha portato allo sblocco della situazione giudiziaria del giornalista, che rischiava la morte per “fine pena mai” in un carcere speciale americano.

Si tratta di un passaggio positivo, possiamo dire vincente, lungo il percorso accidentato della libertà di informazione, che in tutto il mondo sta subendo attacchi sul piano del diritto, attraverso valanghe di “querele temerarie” per chiudere la bocca ai giornalisti che fanno domande scomode, e anche su quello dell’agibilità fisica: malavita e guerre hanno falciato centinaia di giornalisti.

In questo durissimo contesto si è giunti al patteggiamento tra il giornalista di Wikileaks e gli emissari di Joe Biden, consumatosi in un tribunale delle Isole Marianne, in territorio americano. Dei 18 capi di accusa mossi dal Dipartimento di Stato americano contro Assange, contenuti nella legge del 1917, l’Espionage Act, per complessivi 175 anni di carcere, ne è rimasto “solo” uno, il primo. Il giornalista australiano si è dichiarato colpevole di cospirazione per aver ottenuto e pubblicato documenti sulla difesa nazionale classificati (secretati), avuti da Chelsea Manning, analista militare Usa, nel 2010.

Condannato a 5 anni, pena già scontata nel carcere speciale di Londra, e chiusa la parte legale, dalle isole del Pacifico un aereo lo ha portato a Camberra dove è atterrato da uomo libero. Una vittoria anche sulla Cia di Mike Pompeo, che lo voleva morto in carcere oppure ammazzato, come sostiene la giornalista Stefania Maurizi, autrice del documentatissimo libro su Assange “Il potere segreto” (Chiarelettere, 2021).

Finisce qui la parte positiva della vicenda di Julian Assange, che attraverso l’attività dell’associazione Wikileaks ha rivelato al mondo informazioni sconvolgenti sulle attività criminali da parte delle truppe americane e britanniche in Iraq, Afghanistan, le torture di Guantanamo, l’uccisione a freddo di cittadini inermi, considerate “collateral murder” (Iraq, 12 luglio 2007, filmato dell’attacco di un elicottero Usa “Apache” mentre uccide 18 civili tra i quali due giornalisti).

Da più parti si rileva che l’ammissione di colpevolezza di Assange in un tribunale costituisce un pericoloso precedente. “Il cosidetto chilling effect sulla libertà di stampa è stato realizzato – afferma la docente di diritto internazionale Marina Castellaneta - e continuerà a produrre i suoi effetti. Difficile che un giornalista si avventuri nella divulgazione di notizie sui crimini presumibilmente commessi durante i conflitti dalle grandi potenze, perché le gravi pene e il trattamento disumano e degradante subito dal fondatore di Wikileaks, in ragione di non chiarite esigente di sicurezza nazionale, potranno essere sempre chiamate in ballo per bloccare la libertà di stampa”.

Questo anche se, obietta l’ex magistrato Armando Spataro, sollevare nel caso Assange la cospirazione e la violazione del segreto di Stato, è sbagliato. Si tratta di giornalismo e non di spionaggio. E il segreto di Stato può essere violato in presenza di reati gravi e conclamati.

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