Massimo Carlotto, Trudy, Einaudi, pagine 216, 18 euro.
Non ci si stupisca della pubblicazione, su un foglio di sinistra sindacale, di una recensione dell’ultimo libro di Massimo Carlotto – forse il più noto e apprezzato “noirista” italiano – “Trudy”, in libreria dal 9 aprile. E non tanto perché Sinistra Sindacale ha avuto il piacere e l’onore di ospitare un articolo di Carlotto (https://www.sinistrasindacale.it/index.php/component/content/article/263-2022/numero-20-2022/2599-hebe-de-bonafini-la-resurrezione-di-30-000-desaparecidos-di-massimo-carlotto?Itemid=437), né solo perché la storia è ampiamente dedicata ai temi del conflitto sociale e del mondo del lavoro (senza il minimo rischio – per inciso – di imbattersi in qualche autore che, avendo un tal Ichino come consulente, non trova di meglio che attaccare di “salarialismo” il sindacato dei lavoratori della sanità, per giunta proprio nel mezzo della pandemia …).
La ragione vera di questa recensione è che chi scrive – peraltro senza alcuna specifica competenza se non quella di essere un vorace lettore di Carlotto – da tempo pensa che molti suoi noir, nella migliore tradizione di Chandler, Montalban, Camilleri, Scerbanenco, Izzo, Markaris e altri, siano degli ottimi trattati di sociologia, ben più avvincenti di quest’ultimi (così come, nell’arte cinematografica, lo sono per dire i film dei Dardenne, di Loach o di Kiarostami).
Per essere più precisi – e venendo a “Trudy” – la storia si pone all’incrocio tra il trattato sociologico e il giornalismo d’inchiesta. La vicenda di Ludovica Baroni alla ricerca di una risposta al “mistero” della sparizione improvvisa del marito, noto commercialista lombardo, è il pretesto per indagare, innanzitutto, il crescente peso economico e politico – e sul versante dei pericoli per la democrazia e la vita quotidiana di ogni cittadino e cittadina – del settore della “security”. Non tanto i vigilantes che stazionano davanti a banche e supermercati (di cui conosciamo le poco edificanti condizioni di lavoro e vicende salariali e contrattuali), ma grandi imprese, spesso multinazionali che offrono servizi “all inclusive” ad altre aziende private (ma anche al pubblico) che vanno dalle indagini senza limiti alla videosorveglianza, alle scorte armate in Italia e negli scenari di crisi, alla cybersicurezza e, non ultimo, all’azione più o meno legale di “contenimento” delle proteste sindacali (un’idea limitata del settore e dei suoi corifei può venire dal secondo “Rapporto sulla filiera della sicurezza in Italia” del Censis https://www.censis.it/sites/default/files/downloads/Rapporto%20finale.pdf).
La storia di “Trudy” ci ricorda che siamo tutti sorvegliati e, questione ancor più inquietante, i vertici e gli operativi delle grandi aziende di “security” sono tutti uomini (anche in termini di genere) che vengono dalle forze dell’ordine, dai servizi di intelligence, dalle forze armate, e che mantengono con le loro istituzioni d’origine – o meglio, con uomini importanti nelle loro istituzioni d’origine – legami molto stretti, con scambi di informazioni e di “favori” al limite del lecito. Vengono in mente le parti più inquietanti dello splendido trattato, questo sì, “Il capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff.
L’intricata trama di “Trudy” getta squarci di luce su molte vicende, dove la “fiction” riporta a galla accadimenti non solo verosimili ma reali, a partire dalla tragica condizione di molti luoghi di lavoro – qui il “focus” è sulla Toscana – dal tessile-abbigliamento alla logistica. Condizioni di lavoro al limite della schiavitù, caporali, cooperative di comodo, somministrazione di lavoro gestita con metodi mafiosi, in un intreccio tra “manovalanza” o “quadri intermedi” stranieri, e con un controllo assoluto della filiera da parte di italiani in doppiopetto.
La stessa rispettabilità, sopra ogni sospetto, del commercialista scomparso che gestisce in realtà un giro di raccolta e riciclaggio del denaro in nero, anche per importanti politici: quest'ultima la vera motivazione dell’interesse al caso della grande azienda di security.
Il lettore più attento non mancherà di trovare sia l’eco di note vertenze sindacali che il richiamo a vicende di malaffare che interessano note forze politiche. Ma non vorremmo nuocere alla bellissima e intrigante trama del romanzo. Carlotto scrive con uno stile sobrio e asciutto, quasi essenziale. Dipinge con poche, intense pennellate carattere e pensieri dei numerosi personaggi. Un “romanzo corale”, così come lo ha definito in una presentazione nella sua città, Padova.
Senza esagerazioni Carlotto rovescia la narrativa sui “buoni” (quelli della “security”), che sono in realtà malvagi e senza scrupoli, assetati di potere prima ancora che di denaro, ma in fondo anche stupidi… Al contrario emergono, si stagliano quasi, le figure femminili; dalla protagonista “vittima” della scomparsa del marito e degli intrighi che vi girano attorno, alla moglie del sindacalista di base, ad altre donne, ben più intelligenti, piene di dignità, legate da forte solidarietà. Buone.
Al di là della sociologia, un romanzo che si legge di gusto e tutto d’un fiato.