Di fronte alla strage nel cantiere Esselunga di via Mariti a Firenze, le indagini della magistratura sulle cause del crollo rischiano di passare in secondo piano rispetto alle condizioni di lavoro cui erano sottoposti, nelle 30 ditte in subappalto, i tanti operai per lo più immigrati impegnati nella costruzione del centro commerciale.
Non certo una novità, ha ricordato alla manifestazione commemorativa della tragedia un operaio edile albanese, oggi integrato: “Quando sono arrivato in Italia eravamo noi la carne da macello, ora sono quelli che fuggono dalla guerra, dalla fame e dalla miseria. I nordafricani, i nigeriani, gli afgani, i georgiani”. Ragazzi che per guadagnarsi la giornata, come le cinque vittime della tragedia, si alzavano prima dell'alba, facevano 300 chilometri di macchina, e la sera tornavano a casa a notte fonda.
Al tempo stesso, i racconti dei sopravvissuti dipingono un quadro disarmante di quello che accadeva in un cantiere da ben 35 milioni di budget. Uno di quelli che in teoria avrebbe i soldi per rispettare le leggi sulla sicurezza, e sulla regolarità dei contratti di lavoro: “Quella mattina abbiamo detto al nostro responsabile che sarebbe stato meglio aspettare un giorno prima di lavorare al piano terra – ha raccontato un operaio romeno che si è salvato per un pelo - visto che sopra c'erano altri che stavano preparando una gettata. Lui mi ha risposto: 'Cosa dici! Qui si lavora, e se non ti va bene stasera prendi i tuoi documenti e te ne vai'. Eppure stavamo facendo un lavoro di due anni in sei mesi, ma ci dicevano che eravamo in ritardo”.
Dall'imam Izzedin Elzir, autentico e meritorio punto di riferimento per la comunità islamica fiorentina, le ultime pennellate su un dipinto lordo di sangue: “I ragazzi mi hanno spiegato che stavano assumendo altri lavoratori, perché non ce la facevano con i tempi. E tre di loro, giovani egiziani che erano da un anno in cantiere, davano metà della busta paga agli 'intermediari', quelli che li avevano indirizzati qui”. Ai caporali.