Scrivere dell’esito della Cop28 a distanza di alcune settimane dalla sua chiusura è un’occasione per sviluppare alcune riflessioni a freddo. L’analisi a caldo è stata riportata sul diario pubblicato da Collettiva, compreso l’articolo sull’accordo finale https://www.collettiva.it/copertine/ambiente/altro-che-accordo-storico-e-un-compromesso-al-ribasso-fwnd9uxx. La conferenza si è chiusa, appunto, con un compromesso al ribasso, che non risponde all’esigenza di un radicale e urgente cambiamento di sistema.
La scelta di Dubai come organizzatore aveva scatenato dubbi e proteste, sia per gli interessi diretti del paese sulle fonti fossili sia per il mancato rispetto dei diritti umani e del lavoro. Il problema però non è solo nella scelta della presidenza di turno. Le conferenze devono assumere decisioni con il consenso di tutti i paesi e gli interessi in gioco sono tanti, diversi e contrastanti, condizionati fra l’altro dalle pressioni delle fortissime lobbies del fossile e del nucleare.
Non è facile trovare un accordo e, anche quando viene trovato, non ci sono gli strumenti per renderlo vincolante né per sanzionare i paesi che non rispettano gli impegni assunti. Gli impegni di riduzione delle emissioni (Ndcs), per esempio, sono volontari. La somma dei vari impegni non è sufficiente a garantire il rispetto del limite di 1,5°C, dovranno essere resi più ambiziosi entro il 2025. Eppure quegli stessi impegni insufficienti potrebbero anche non essere rispettati dai singoli paesi.
Stesso ragionamento vale per gli impegni finanziari. Ogni paese si impegna volontariamente a contribuire finanziariamente per sostenere i paesi poveri e in via di sviluppo per la mitigazione, l’adattamento e la copertura dei danni e delle perdite legate alla crisi climatica. Non c’è però nessuna connessione fra la stima delle risorse necessarie ad affrontare la transizione, e gli impegni pubblici e privati che devono essere concretizzati per sostenerla in modo strutturale e nei tempi rapidi indicati dai rapporti scientifici dell’Ipcc.
L’altro aspetto sconcertante è la distanza abissale fra il tenore dei negoziati e le richieste del movimento per la giustizia climatica. Gli attivisti in tutto il mondo, e anche all’interno della Cop, chiedevano il cessate il fuoco immediato in ogni guerra, il rispetto dei diritti umani e del lavoro, equità e giustizia sociale, l’uscita dalle fonti fossili, la giusta transizione, la fine di ogni forma di sfruttamento, colonialismo e occupazione, la partecipazione democratica. Ma questi temi restavano fuori dalle porte dei negoziati che si concentravano su tecnicismi e uso delle parole, necessari per trovare un consenso unanime ma non per mettere in campo un’azione concreta per rispondere alla crisi climatica, sociale e democratica in atto.
I processi multilaterali sul clima sono estremamente complessi e finora si sono dimostrati inadeguati, ma sono la via obbligata per una trasformazione sistemica che può essere vinta solo agendo a livello globale. Andrebbero però riformati. Prima di tutto garantendo una reale partecipazione democratica, al momento totalmente assente. Non è prevista nemmeno la partecipazione dei lavoratori, dei sindacati e della società civile organizzata al programma di lavoro sulla giusta transizione.
Inoltre andrebbe rafforzata una governance globale che su alcuni temi - pace, equità, tutela del clima e dell’ambiente, diritti umani, servizi essenziali, ecc. - possa assumere decisioni sovraordinate, vincolanti e sanzionatorie.
Altra questione è quella di rafforzare le lotte per la giusta transizione nei vari paesi e le alleanze fra movimento sindacale e resto del movimento per la giustizia climatica a livello nazionale e internazionale, perché l’esito delle conferenze del clima non si determina solo nei 15 giorni dei negoziati, si prepara con le battaglie e i progressi acquisiti nei vari paesi e con la forza di un movimento globale che va consolidato e fatto crescere.
Abbiamo di fronte a noi diversi appuntamenti importanti su cui misurarci nei prossimi mesi: le elezioni europee, che potranno determinare la conferma o la sconfitta del ‘green deal’ e della leadership europea in materia di politiche climatiche e della sostenibilità; la revisione del Piano nazionale integrato energia clima (Pniec), che dovrà essere inviato nella sua forma definitiva alla Commissione europea entro giugno 2024; la presidenza del G7 che l’Italia ha assunto da gennaio con molte riunioni ministeriali nel corso del primo semestre dell’anno, fra cui il 28-30 aprile quella sui temi “clima, energia e ambiente” a Torino, e a giugno il summit dei leader in Puglia.
Sono alcuni degli appuntamenti cruciali su cui concentrare la nostra azione, per garantire una giusta transizione che coniughi giustizia sociale e ambientale, occupazione di qualità e benessere. E per fare la nostra parte anche in vista della prossima Cop29, che si svolgerà a novembre in Azerbaijan, un altro paese esportatore di fonti fossili, e che sarà presieduta dal ministro dell’Ambiente, che ha lavorato per ventisei anni nella società governativa di petrolio e gas.