La melonomics alla resa dei conti - di Alfonso Gianni

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Sono passati pochi giorni dalla seduta dell’11 ottobre, quando Camera e Senato hanno approvato due risoluzioni di indirizzo sulla Nadef 2023, nonché quella che autorizza lo scostamento di bilancio in vista della proroga per il 2024 della riduzione del cuneo fiscale, che già le previsioni di crescita contenute nel testo governativo sono state messe in dubbio dalle stime ben più basse fatte dal Fondo monetario internazionale. Per quanto il ministro dell’economia Giorgetti avesse scritto nella premessa alla Nadef di essersi mantenuto su valutazioni prudenti, esse paiono già eccessive. Il Fmi prevede infatti per il prossimo anno una crescita dello 0,7% in luogo dell’1,2 % stimato dal governo. La differenza, proprio perché si ragiona su numeri bassi, è tutt’altro che trascurabile.

Va altresì tenuto conto che queste valutazioni sono antecedenti allo scoppio del conflitto in Medio Oriente, che certamente non è destinato a favorire il quadro dell’economia internazionale. Uno dei più autorevoli economisti mondiali, Stephen Roach, per trent’anni in posizioni apicali nella Morgan Stanley, ha recentemente osservato che “due guerre calde (Israele e Ucraina) più una guerra fredda (Usa-Cina), in congiunzione con l’impatto di una stretta monetaria che sarà sicuramente prolungata, possono essere sufficienti per fare cadere il mondo in recessione nel 2024”.

Previsioni fosche, entro le quali il nostro paese somma le sue croniche difficoltà a quelle derivanti dalla congiuntura internazionale. Quanto alla stretta monetaria non c’è elemento che faccia credere una inversione di rotta, almeno per quanto riguarda la Bce. L’ultima riunione del board della Banca europea non ha portato ulteriori aumenti dei tassi, dopo i dieci consecutivi che ci sono stati, ma non ha dato alcuna speranza che il picco degli aumenti sia già stato raggiunto. Quindi i tassi potrebbero crescere ancora, o comunque mantenersi sugli attuali alti livelli per parecchio tempo. Il mitico livello del 2% dell’inflazione (da profitti) è ancora molto lontano. L’inflazione scende di qualcosa, ma troppo lentamente e soprattutto non risolve il problema di riempire il carrello della spesa. Soprattutto perché dal 2008 al 2022 i salari reali italiani, secondo i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro, sono diminuiti del 10%. In queste condizioni il governo si avvia ad una ben triste manovra di bilancio.

La riduzione del cuneo fiscale riduce i costi per le imprese, ma non risolve il problema dei salari, poiché il modesto incremento nominale che ne deriva è mangiato dall’inflazione. In più, il taglio del cuneo fiscale è temporaneo, vale solo per il 2024. Così come lo è l’unificazione dei due primi scaglioni dell’Irpef, sulla sciagurata strada della flat tax, che forse verrebbe finanziata “fuori manovra” attingendo al fondo per la riduzione della pressione fiscale. Questo fa sì che alcuni calcolino la manovra in 24 miliardi, altri in 28. Comunque di questi 16 sono in deficit, il che non sarebbe un male in sé, malgrado il già elevato livello del nostro debito pubblico, se fossero impiegati in investimenti innovativi capaci di aumentare il Pil, che in prospettiva potrebbe diminuire il debito senza il taglio della spesa.

Ma così non è per l’assenza di un progetto di politica economica, essendo prioritaria la ricerca di qualche contentino, dotato di un ritorno elettorale. Che però non si spinge fino agli strati più poveri, come si è visto nel vergognoso scaricabarile sul salario minimo legale. In sostanza saremmo tornati alle “clausole di salvaguardia” di berlusconiana memoria - che, in quel caso, se non disattivate facevano aumentare l’Iva - per cui i lavoratori potrebbero vedersi di colpo alleggerita la busta paga nel 2025, se non verrà trovato l’opportuno finanziamento per la riduzione del cuneo, che peraltro si limita a confermare i valori dell’anno passato.

Eppure Bankitalia aveva già bacchettato il governo nelle audizioni sulla Nadef, affermando che “a fronte di nuovi oneri di natura permanente (come quelli connessi con la riduzione del numero delle aliquote dell’Irpef) o di difficile rimozione (come, presumibilmente quelli risultanti dal taglio dei contributi sociali), è sempre opportuno individuare coperture certe, di entità adeguata e con natura altrettanto permanente”.

Per la sanità ci sono tre miliardi, ma di questi gran parte andrà alle strutture private, sperando di accorciare le liste di attesa nel pubblico. Invece di nuove assunzioni si agisce sulla detassazione degli straordinari. In sostanza un ulteriore passo in avanti verso lo smantellamento del Servizio sanitario nazionale – se gli extracomunitari ne vogliono usufruire devono pagare 2mila euro annui! - e un appesantimento delle condizioni di lavoro per il personale sanitario. La pandemia non ha insegnato nulla.

 

Una manovra non solo povera e ingiusta, ma anche fragile. Al punto di vietare emendamenti per i parlamentari della maggioranza. In altri termini il Parlamento è completamente esautorato dall’avere voce in capitolo sulla legge fondamentale: quella di bilancio.

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