Adania Shibili, Un dettaglio minore, La nave di Teseo, pagine 144, euro 17.
Adania Shibili, scrittrice palestinese laureata in Comunicazione e Giornalismo presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, che ha completato i suoi studi conseguendo un dottorato alla University of East London, in questo libro, che è un doppio racconto, ci offre una storia di guerra avvenuta 25 anni prima della sua nascita, e la cronaca delle ricerche fatte per raccontare questa storia. Una storia semplice nella sua crudeltà.
Il libro è valso alla sua autrice il premio “LiBeratur Award 2023” che l’agenzia letteraria Litprom le avrebbe dovuto consegnare in occasione della Fiera del Libro di Francoforte. Per la “guerra iniziata da Hamas”, così recita il comunicato dell’agenzia, la cerimonia di consegna del premio però non si svolgerà.
Sono le storie narrate che rendono impossibile l’attribuzione del premio. La prima è una tragica storia di guerra e di dopoguerra, poiché la Nakba, il nome che i palestinesi danno alla guerra del 1948, era ufficialmente terminata un anno prima. È ambientata nell’estremo sud del deserto del Negev, dove un manipolo di uomini deve vigilare il confine egiziano e bonificare l’area dalle popolazioni arabe, invero molto sporadiche.
Nel racconto, ricostruito dall’autrice a partire da un articolo apparso su un giornale israeliano, di palestinesi ne incontriamo solo una, senza nome: nessuno ha un nome in questa storia, nessun nome conta in questa storia. Una ragazza palestinese e un cane che piange e abbaia per lei. Il deserto del Negev è il far west dell’epopea nazionale israeliana che il comandante dell’avamposto sogna già di trasformare “in una regione fiorente e civile, in un centro di istruzione, sviluppo e cultura, come stiamo facendo nelle regioni settentrionali e centrali del paese”.
Una occupazione e una bonifica, dunque, mosse dalle migliori intenzioni civilizzatrici, quelle che sempre hanno giustificato ogni colonialismo. Le sorti dei civilizzatori si concretizzano quando in una ricognizione trovano un accampamento, qualche dromedario, un cane, una ragazza sporca. I dromedari sono uccisi dalla pattuglia in ricognizione, il cane e la ragazza vengono invece condotti al campo.
Il vero motivo per cui il premio non sarà consegnato è il fatto che la bonifica del Negev, come ogni altra storia di colonialismo, come ogni altra storia di superiorità occidentale, fu una guerra d’oppressione. Poi la preda fu preda; poi le furono tolti i lerci vestiti; poi fu lavata con un manicotto davanti alla truppa; poi si dovette insaponare; poi fu sciacquata; poi l’infermiere le tagliò i suoi lunghi e bei capelli crespi, e le bonificò la cute e quel restava dei capelli con la benzina; poi il capo fece democraticamente scegliere alla truppa se la preda dovesse far la preda o dovesse aiutare in cucina; poi fu portata nella tenda del capo; poi il cane abbaiò e pianse; poi fu riportata in un’altra tenda; poi il capo cambiò aria alla sua tenda che l’odore selvaggio e disperato della preda era nauseabondo; poi il cane abbaiò di nuovo e abbaiò di nuovo a ogni soldato che visitò la tenda; poi la ragazza fu fatta salire sull’automobile che l’aveva portata al campo, fu fatta salire insieme al comandate, all’autista, al soldato che era a guardia della sua tenda e a una pala; poi il cane disperato seguì l’automobile finché poté sotto lo sguardo divertito del comandante; poi l’auto si fermò, il comandante ordinò di scavare una fossa che chiamò buca; poi la ragazza capì; poi il comandante sparò mentre provava a fuggire; poi la fossa fu ricoperta…
La seconda parte è la narrazione del lavoro che una giovane ricercatrice compie per raccontare questa storia. Racconta della sua vita, dei limiti ai suoi movimenti, della quotidianità della vita nei territori occupati. Racconta di un complesso sistema di coprifuoco, lasciapassare e mille altri impedimenti che inibiscono vita e lavoro. Racconta delle ansie, del panico che questa vita comporta. Racconta delle sue ricerche e di come questa narrazione sia difficile. Racconta di come sia cambiato il mondo al di là dei muri in cui sono rinchiusi i palestinesi nel tempo in cui lei non vi era potuta accedere, e non vi sarebbe mai potuta accedere se non avesse preso a prestito la carta d’identità di una collega. Racconta del suo bisogno di muoversi con due carte geografiche, una visibile israeliana per seguire le strade, una nascosta palestinese per capire dove realmente sia a partire dalla sua conoscenza della geografia. Gli esodi, le deportazioni distruggono i popoli perché distruggono le parole e sradicano le memorie condannate a diventare miti.
Quello che ha reso impossibile la consegna del premio è il dettaglio: la narrazione dell’Occidente che tutto può in nome della difesa dei diritti delle donne e dei diritti civili, ma si scontra con l’amara realtà che, semplicemente, è il solito colonialismo. Quello in cui le donne sono prede, senza bisogno di scomodare l’altrui supposta arretratezza culturale. Quello degli italiani in Africa, quello di Destà e del tucul in cui Indro Montanelli, campione del colonialismo occidentale, la teneva per i suoi bisogni.