La logica emergenziale è costantemente evocata nel dibattito politico a proposito delle grandi questioni sociali più rilevanti: migratoria, occupazionale, demografica. Assumere un’“emergenza”, da un punto di vista cognitivo ancor prima che nelle policy adottate, lascerebbe intendere la volontà di adottare misure improntate a tempestività, ampiezza, integrazione. Naturalmente, ammettendo che di emergenza (ovvero un’improvvisa e inaspettata situazione fuori dai canoni ordinari) si tratti.
Nel caso in questione, è difficile definire la crisi demografica come un’emergenza: l’invecchiamento è “inscritto” nella struttura della popolazione italiana da decenni, a partire dal calo delle nascite seguito agli anni ’70 del Novecento, e alla riduzione della popolazione residente che si rileva fin dal 2014.
Lo stesso si può affermare per le migrazioni: tutti gli indici a disposizione (flussi in ingresso, acquisizioni di cittadinanza, totale della popolazione straniera residente) mostrano semmai una stabilizzazione dell’immigrazione in Italia, se non una sua stagnazione.
La struttura della popolazione in età da lavoro è direttamente connessa alla crisi demografica e alla stabilizzazione dell’immigrazione: le previsioni probabilistiche a vent’anni dell’Istat (2043) segnalano una drastica riduzione della popolazione residente di oltre meno 3 milioni rispetto ad oggi, come risultato di una diminuzione dei più giovani (-903mila) e delle persone in età da lavoro (-6,9 milioni) e di un aumento degli anziani (+4,8 milioni).
Naturalmente si tratta di previsioni probabilistiche, basate su approcci che possono essere discussi sul piano metodologico oltre che essere smentiti da fattori non previsti o non prevedibili; tuttavia i segnali di crisi sono indiscutibili.
In sostanza, l’emergenza vera è nell’inazione di oggi: la sua consapevolezza va assunta in questo momento, per essere disinnescata domani. Gli interventi non possono che essere integrati tra loro, concentrandosi allo stesso tempo su demografia, migrazioni e lavoro. Facendo questo, occorre traguardare obiettivi temporali differenti: certo è necessario il sostegno alla genitorialità (come obiettivo di lungo periodo), in particolar modo attraverso i servizi di natura sociale, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, la partecipazione femminile al mercato del lavoro.
A questo vanno aggiunte la qualificazione e la conquista di nuovi diritti per il lavoro, che possono fungere da fattori valorizzanti non solo per chi è già attivo in Italia, ma anche per trattenere quanti lasciano l’Italia (italiani e stranieri) alla ricerca di migliori prospettive occupazionali e di vita all’estero.
Infine, occorre ammettere che tutto questo potrebbe risultare insufficiente se non si interverrà fin da ora sugli attuali trend demografici, che rischiano di rendere impraticabile una dinamica sostenibile dello sviluppo.
L’ipotesi che formuliamo [1] non esclude nessuno degli ambiti e degli interventi appena citati, ma considera che nell’immediato e nel medio periodo solo un aumento del saldo migratorio con l’estero sarà in grado di contrastare il calo della popolazione totale e mitigare, almeno in parte, quello della popolazione in età da lavoro. Un contributo aggiuntivo al saldo migratorio di +150mila persone all’anno consentirebbe in 20 anni (2024-2043) di avvicinarci a questi obiettivi.
Qui si parla di numeri, di incremento del saldo migratorio; però è evidente che solo un ambiente sociale, normativo e lavorativo “accogliente” potrà valorizzare a pieno l’apporto delle migrazioni. Per parafrasare Max Frisch, con l’immigrazione anche quando si cercano ostinatamente “braccia” si trovano inevitabilmente persone con i loro progetti di vita, con le aspirazioni e i cambiamenti di cui sono protagoniste, e che portano nella stessa società di immigrazione.
[1] Per il dettaglio dell’analisi rimando al recente “L’Italia tra questione demografica, occupazionale e migratoria”, di Beppe De Sario e Nicolò Giangrande, ricercatori della Fondazione Di Vittorio (https://www.