Il VI Rapporto agromafie e caporalato - di Matteo Bellegoni

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Il contesto generale in cui viene pubblicato il VI Rapporto agromafie e caporalato ci restituisce una delle fasi più incerte e problematiche dal secondo dopoguerra, evocando dinamiche e scenari fino a pochi mesi fa del tutto imprevedibili. Nei due anni trascorsi dalla pubblicazione del quinto volume infatti il nostro paese ha dovuto affrontare una tragica pandemia, e la conseguente crisi economica post-pandemica che ha messo in gravissima difficoltà il nostro sistema produttivo. La resilienza mostrata in questa situazione di estrema difficoltà dai lavoratori e dalle lavoratrici è stata ulteriormente messa a dura prova dal conflitto scatenato dalla sciagurata invasione della Federazione Russa ai danni dell’Ucraina che – oltre alle terribili perdite in vite umane - ha provocato una forte speculazione dei mercati sul costo delle forniture energetiche (con gli stessi approvvigionamenti a forte rischio) con il conseguente aumento dell’inflazione tornata ormai ai livelli degli anni Ottanta.

Peraltro, visto che la guerra coinvolge due tra i maggiori esportatori di prodotti agricoli a livello mondiale, la stessa dinamica sta avvenendo anche per quanto concerne questi prodotti. L’impatto di questo shock e gli scenari futuri non sono ancora del tutto chiari, sia nel breve che nel lungo periodo. Appare indubbio però che le diseguaglianze stanno aumentando, che le fasce di popolazione a rischio povertà si espandono, che la tenuta sociale e occupazionale del nostro paese sembra in pericolo, e che la necessaria transizione ecologica ha subito un esiziale arresto.

In contesti così drammatici, il rischio che il tessuto produttivo si sfaldi è reale e concreto. C’è infatti il pericolo che le imprese più virtuose (se non adeguatamente sostenute) vengano travolte, mentre quelle che cercano scorciatoie più o meno lecite riescano a sopravvivere. Le stesse infiltrazioni mafiose possono trovare terreno fertilissimo per aumentare il loro impatto nell’economia legale.

Per questo motivo, oggi più che mai, è assolutamente necessario tenere alta l’attenzione su questi temi, e l’impegno dell’Osservatorio Placido Rizzotto va decisamente in questa direzione.

Lo sfruttamento del lavoro, l’economia sommersa sono chiari, espliciti segnali di un sistema produttivo malato e illegale che in molti casi si avvantaggia anche delle risorse del crimine organizzato. Le stime nel volume evidenziano che, nel corso del 2021, sono stati circa 230mila gli occupati impiegati irregolarmente nel settore primario (oltre un quarto del totale degli occupati del settore), in larga parte concentrati “nel lavoro dipendente, che include una fetta consistente degli stranieri non residenti impiegati in agricoltura”.

Peraltro, se è vero che la geografia del lavoro dipendente non regolare agricolo si concentra in special modo in Puglia, Sicilia, Campania, Calabria e Lazio, con tassi di irregolarità che superano il 40%, in molte regioni del centro-nord i tassi di irregolarità degli occupati sono comunque compresi tra il 20 e il 30%. A questo si aggiunga, inoltre, che “l’agricoltura è in ogni caso il settore maggiormente associabile al lavoro povero. Fra le prime cinque professioni con la maggiore incidenza di lavoratori poveri, quattro sono professioni agricole”.

Nelle precedenti edizioni del “Rapporto agromafie e caporalato” il connubio tra irregolarità lavorativa, illegalità, caporalato e altre condotte illecite fino all’infiltrazione mafiosa è stato ampiamente trattato e dibattuto, e trova spazio anche in questa sesta edizione. In particolare però questo importante contributo apre un interessante squarcio sui crimini e i danni ambientali nella filiera agroalimentare.

A tutt’oggi si stima che il volume d’affari complessivo annuale delle agromafie raggiungerebbe i 24,5 miliardi di euro. Il Rapporto si caratterizza per gli approfondimenti su due importanti realtà produttive del nord-est, come la provincia di Treviso e quella di Pordenone, e due del Mezzogiorno, la provincia di Cosenza e quella di Siracusa.

Nel volume, c’è un’importante intervista al sociologo Giovanni Mottura, che dell’inchiesta sociale è stato uno dei padri e dei massimi esperti. A cominciare dalle sue prime indagini riportate sui “Quaderni Rossi” e i “Quaderni Piacentini”, fino al suo impegno accademico - prima all’università di Sociologia agraria di Portici con Manlio Rossi Doria e poi all’Università di Modena e Reggio Emilia - e sindacale con l’Ires Cgil nazionale (oggi Fondazione Di Vittorio) e quello dell’Emilia Romagna.

Mottura purtroppo è scomparso proprio pochi giorni prima della pubblicazione del Rapporto, lasciandoci un grande vuoto e un’importante eredità. Un lascito, sicuramente di merito, per le sue fondamentali analisi e riflessioni sui temi di cui si è occupato per una vita: la questione agraria, il Mezzogiorno, il mercato del lavoro e le migrazioni (sia interne che internazionali); ma anche di metodo, per la serietà, la curiosità, l’impegno politico con cui si è sempre approcciato alle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne e più vulnerabili.

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