Un’esperienza di accoglienza ad Andria - di Luigi Antonucci

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“Quelle che vedi nei telegiornali mentre sbarcano in Sicilia non sono solo immagini ma persone in carne e ossa, dal momento in cui mettono piede in Italia hanno bisogno di tutto, e quando dico tutto non parlo solo dei bisogni materiali come nutrirsi e vestirsi, ma anche di quelli immateriali. Essere ascoltati e compresi, non giudicati. Se poi sono bambini, di un sorriso e di una carezza”. Questo mi raccontava Daniela che, appena smessi i panni di segretaria generale del Nidil Bat, vestiva quelli della volontaria nella casa accoglienza Santa Maria Goretti di Andria.

Sindacato e volontariato, una commistione che non prendiamo in seria considerazione (a cominciare dal sottoscritto), e che invece dovrebbero essere legati uno come il prolungamento dell’altro. Perché il lavoratore che hai difeso in fabbrica dal licenziamento potresti trovarlo alla mensa in cerca di un pasto caldo, o latte e pannolini per i propri figli.

Avevo già conosciuto il responsabile della casa alloggio don Geremia Acri, ci eravamo incrociati e qualche volta scontrati in iniziative pubbliche. La cosa che mi aveva sempre colpito era la sua forza nell’affrontare le questioni, senza nessuna remora nei confronti di politici e amministratori.

Collaborare, fare volontariato in un posto come casa accoglienza di Andria non è semplice, ogni giorno devi confrontarti con il dolore, la vergogna, la fame, il bisogno. Quando ho chiesto a don Geremia se accettasse di avere tra le fila dei collaboratori un non credente, mi ha detto: “Alle persone a cui decidi di donare un pezzo del tuo tempo non importa di che religione sei, benvenuto tra noi”. Pensavo che il compito a me destinato fosse aiutare a consegnare i pasti e dare una mano in cucina. Invece sono stato adibito al centro di ascolto. Ovvero l’ufficio in cui per primi ci si accosta alla persona e ai sui bisogni.

Mi è stato detto: “Visto il lavoro che hai fatto, chi meglio di te?”. Loro erano tranquilli, io no. Accanto a un veterano del servizio di ascolto ho compreso che la difficolta del compito affidatomi era più grande di quello che temevo. Di fronte a noi passava la vita che ti guardava negli occhi, mentre raccontava come e perché in quel momento era lì a chiedere aiuto. Il mio istruttore mi ha consigliato vivamente, per esperienza vissuta, di non farmi prendere dalle storie che venivano raccontate, perché altrimenti il cuore non avrebbe retto alle emozioni, mentre il nostro compito era rimanere con la massima concentrazione sulla risoluzione dei problemi.

La struttura offre una serie di servizi, in primo luogo i pasti giornalieri, preparati da cuochi che ogni giorno decidono cosa cucinare aiutati da un nutrito gruppo di altri volontari. Naturalmente nella scelta del menù bisogna tener conto delle varie sensibilità alimentari e religiose degli ospiti che si affollano durante la distribuzione. Altro pezzo importante è il magazzino del vestiario: durante l’inverno le coperte sono le più richieste, visto che la maggioranza di coloro che le richiedono dormono all’addiaccio o in baracche di fortuna. Le scarpe sono un altro elemento importante, visto che gran parte dei migranti arrivano con le ciabatte con cui si sono imbarcati in Libia. Infine le docce e una infermeria, con una serie di medici che si danno il cambio nelle visite, agli ordini di uno scricciolo di suora che ha la forza di tenere a freno dei giganti solo con uno sguardo.

Rimasto da solo al centro di ascolto ho visto passare di fronte a me persone, migranti, rifugiati di nazioni che avevo solo sentito nominare per qualche colpo di stato o per averle viste sul mappamondo: Mali, Guinea Bissau, Senegal, Ghana, Costa D’Avorio, Sudan e poi Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco, Siria. Tutti attirati dalla raccolta dell’uva e in seguito delle olive. Altre migrazioni da una raccolta stagionale all’altra. Ognuno con una storia diversa alle spalle. Fuga da guerra e da fame, alla ricerca di un lavoro anche misero e infame pur di mandare qualcosa a chi è rimasto a casa.

Tutti o quasi passati dalla Libia e dai suoi veri e propri lager. Le botte subite anche solo per divertimento, le violenze sessuali, continue, brutali e subite senza fiatare pena la morte. La paura nei loro occhi, una costante.

Mentre inserivo nella sua scheda i dati di un ragazzo giovanissimo del Mali, mi sono accorto che il giorno precedente era il suo compleanno, allora gli ho sorriso facendogli gli auguri. Guardandomi mi ha detto con un filo di voce: “Ieri era un giorno come un altro”. E a una faccia sorridente della Guinea Bissau ho chiesto se avesse voglia di tornare in un paese povero come il suo. “Sono fuggito con una sola idea, tornare - ha risposto - sono africano e quella è la mia terra”.

Ora guardo le immagini degli sbarchi con occhi diversi, e mi chiedo quali e quanti di loro vedrò arrivare davanti alla mia postazione. Stramaledico gli indifferenti, e coloro che per un voto in più e con un crocifisso tra le mani vorrebbe mandarli indietro.

 

*In memoria di Daniela Fortunato. Compagna ma soprattutto amica, segretaria generale del Nidil Bat, volata via a soli 38 anni.

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