Il XX Congresso del Partito Comunista Cinese (16-23 ottobre 2022) e il terzo mandato di Xi Jinping - di Alberto Bradanini*

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Domenica 16 ottobre 2022, nella Grande Sala del Palazzo del Popolo a Pechino, il sessantanovenne Xi Jinping apriva i battenti del XX Congresso del Partito Comunista Cinese con il piglio di chi resterà a lungo alla guida del paese. Se poi al termine dei prossimi cinque anni - salute permettendo – otterrà il quarto mandato, egli rimarrà in carica fino al 2032, quando avrà la stessa veneranda età dell’attuale, un po’ svanito, presidente americano J. Biden. Nella Cina Popolare, nessun altro, ad eccezione di Mao, è rimasto al potere così a lungo. Che però si tratti di vera gloria, per la Cina e per il mondo, ai posteri l’ardua sentenza, come suggerisce il grande poeta.

Prima di passare a miglior vita, il saggio Deng Xiaoping aveva raccomandato di attenersi alla regola dei due mandati (e sia Jiang Zemin che Hu Jintao l’avevano rispettata), per evitare quella ossificazione della nomenklatura che finisce per ostacolare la corretta percezione degli eventi. Secondo il Piccolo Timoniere, la senescenza politica e anagrafica era stata una delle cause che avevano portato all’implosione dell’Unione Sovietica (insieme alla soppressione della NEP - Nuova Politica Economica - da Lenin e cancellata da Stalin). Se il passaggio di consegne non rispetta tempi prestabiliti, aveva argomentato Deng, la lotta per il potere prende il sopravvento e crescono i rischi di destabilizzazione, come dimostra il tentato golpe di Lin Piao contro Mao, nel 1971. Xi Jinping, ignorando quel sensato suggerimento, si espone dunque a incognite insidiose.

Dopo la chiusura del Congresso (22 ottobre), il neoeletto Comitato Centrale (203 membri e 168 supplenti) ha nominato il Politburo (24 membri) e quest’ultimo ha scelto i magnifici sette del Comitato Permanente (CP), dove si concentra il potere supremo: ai due confermati, Ding Xuexiang e Li Xi Xi Jinping, si sommano i nuovi ingressi, tutti fedelissimi del capo: Li Qiang, Zhao Leji, Wang Huning e Cai Qi. Xi Jinping è confermato Segretario Generale del Partito e Presidente della Commissione Militare, e in primavera sarà rieletto Presidente della Repubblica.

Tra gli uscenti, oltre al Li Keqiang, troviamo Li Zhanshu, Han Zheng e Wang Yang. Il capo del Partito a Shanghai, Li Qiang, prenderà il posto di Li Keqiang, che uscirà di scena nel marzo 2023. Giù per li rami, tutte le cariche che contano, i responsabili della propaganda, della disciplina nel Partito e della lotta alla corruzione, sono assegnate a funzionari fidati. Se l’incoronazione di Xi Jinping è un fatto compiuto, il diavolo, come sempre, si nasconde nei dettagli.

La lealtà è un bene, ma l’unanimità non lo è sempre. Da Deng in avanti, nel Comitato Permanente la Lega della Gioventù - 90 milioni di iscritti e porta d’ingresso ai piani alti del Partito - era stata costantemente rappresentata. Ora non più, Xi non avrà contrappesi. Inoltre, con una umiliante defenestrazione di Hu Jintao, grande protettore della Lega della Gioventù, immortalata per di più in mondovisione, egli ha mostrato una protervia inutile, che non verrà dimenticata, e dovrà guardarsi le spalle. Nei sorrisi che offrirà alle telecamere e nelle lusinghe dei collaboratori sarà alla costante ricerca della conferma del sospetto, della prova del tradimento, di quell’incondizionata lealtà di cui mai sarà certo. Inopinatamente, egli ha preferito guardare a Mao e al suo iconico culto della personalità, piuttosto che a Deng, il geniale architetto della rinascita cinese (entrambi si staranno forse girando nella rispettiva tomba, il primo perché Xi vuole imitarlo, il secondo per la ragione opposta).

Si consideri inoltre che la centralizzazione aggrava il rischio di sbagliare, riduce la capacità di correggere gli errori e alimenta una passiva disposizione all’obbedienza. Se la sopravvalutazione di sé è ovunque una trappola infernale, essa è ancor più pericolosa in un paese di 1,5 miliardi di individui, dove le decisioni del centro non trovano automatica attuazione nell’immensa periferia del paese. Ne sono la prova le drastiche misure anti-Covid adottate senza un corretto collegamento con la variegata realtà sociale e che hanno danneggiato l’economia (il Pil crescerà quest’anno solo tra il 3 e il 4 per cento, il minimo da 40 anni) e che solo ora Xi ha deciso di allentare per evitare che le proteste superassero la soglia critica, per di più in una fase critica interna ed esterna, tra rallentamento economico, frustrazioni anti-Covid, frizioni con l’Occidente, la questione di Taiwan e gli equilibri tra Usa e Russia.

Quanto alla battaglia contro la corruzione, Xi Jinping ha elencato i successi raggiunti, rispondendo alle accuse di averne fatto strumento di lotta politica. “Tale battaglia… ha raccolto risultati straordinari, consentendo di eliminare i pericoli in agguato in seno al Partito, allo Stato e all’esercito”. Secondo i dati diffusi, 1,5 milioni di persone sarebbero cadute nella rete, sia tigri (leader superiori) che mosche (quadri inferiori).

Sul tema del riscaldamento globale, Xi ha sottolineato che il paese, uno dei principali inquinatori del pianeta (in ragione della sua demografia, tuttavia, poiché in termini pro-capite i maggiori inquinatori sono Canada, Stati Uniti e altri occidentali), intende “partecipare alle politiche globali e accelerare l’uso pulito ed efficiente del carbone”. Detto in altri termini, questo significa che l’energia verde dovrà aspettare, poiché per ora l’economia cinese non può fare a meno dei combustibili fossili.

Sulla complessa questione di Taiwan, Xi Jinping ha lasciato intendere che la Cina non intende rinunciare all’uso della forza per giungere all’unificazione, ribadendo “che si tratta di una questione interna e che prima o poi la riunificazione sarà raggiunta, contro la prepotenza di altre nazioni” (vale a dire gli Stati Uniti, mai nominati tuttavia). A tal fine, la proposta denghiana “un Paese, due sistemi” – sinora applicata ad Hong Kong – è dunque rivolta anche a Taiwan.

L’affermazione che l’uso della forza è un’opzione percorribile va tuttavia letta alla luce delle intese raggiunte tra le due parti nel 1992 sull’esistenza di una sola Cina (sebbene, nella tradizionale ambiguità ossimorica del pensiero classico cinese, l’interpretazione di quelle intese è lasciata a ciascuna delle parti). Per la Repubblica Popolare la riunificazione dovrebbe aver luogo con il consenso dei taiwanesi, che però, come noto, sono in larga maggioranza contrari. La Cina è consapevole che un conflitto con Taiwan avrebbe ripercussioni cruciali per la sua stabilità politica ed economica, senza contare che la deterrenza di Taipei (a prescindere dall’ipotetico intervento degli Stati Uniti) non renderebbe la conquista dell’isola una passeggiata.

Sinora, a dispetto della narrazione occidentale che attribuisce a Pechino la volontà di usare la forza, la dirigenza cinese ha dimostrato di voler difendere la pace, pur scoraggiando le provocazioni come la visita a Taiwan di Nancy Pelosi nell’agosto 2022. Per il momento, non c’è alcuna evidenza che l’esercito popolare stia preparando l’invasione dell’isola. La Cina, in linea con gli auspici di Deng, difende lo status quo, rinviando la soluzione alle future generazioni in attesa che sorgano le condizioni politiche, sui due fronti, per un compromesso accettabile. Un ipotetico conflitto, sul suolo e con il sangue dei taiwanesi, non conviene certo né a Taipei né Pechino, ma di certo converrebbe agli Stati Uniti per bloccare l’ascesa della Cina, il principale rivale strategico. Il solo evento che potrebbe spingere la dirigenza cinese a valutare un eventuale intervento è costituito dalla dichiarazione d’indipendenza da parte di Taipei. Non si capirebbe tuttavia per quale ragione Taiwan dovrebbe decidere di incamminarsi su un sentiero foriero di drammi e devastazioni, quando indipendente di fatto lo è già.

Su un altro fronte, Xi Jinping ha affermato che la Cina investirà maggiori risorse nella creazione di un potenziale militare di livello mondiale, in particolare nella marina, poiché il pericolo principale proviene dal mare, cioè dagli Stati Uniti, la più grande talassocrazia della storia, un pericolo accresciuto ora con la creazione dell’Aukus (Australia, Regno Unito, Usa) e l’estensione di una Nato divenuta globale, con lo scopo di contenere e se possibile destrutturare la Repubblica Popolare.

Quanto all’economia non sono alle viste significativi cambiamenti. È stata semmai confermata l’attenzione a una presenza estesa e competente dello stato, ciò che inquieta ancor più il capitalismo corporativo occidentale, che non ha mai abbandonato l’obiettivo di mettere le mani sul paese attraverso il globalismo finanziario. Il mercato manterrà, dunque, un ruolo importante, ma ben monitorato dallo stato, che rimane cruciale nelle scelte strategiche, nei settori fondamentali e nelle grandi aziende, private o pubbliche che siano.

La strategia cinese non mira al decoupling, che costituisce semmai una velleitaria tentazione dell’Occidente. La tecnologia resta fondamentale per tutti. Anche su questo fronte, gli Stati Uniti restano parossisticamente concentrati a contenere l’ascesa cinese, invece di lavorare alla costruzione di un mondo unito, prospero e pacifico. Il decoupling è del resto un’arma spuntata, poiché la presenza della Cina nel mondo è oggi imprescindibile. Un ultimo aspetto poco meditato riguarda un Occidente ormai non più indispensabile sulla scena internazionale. I Brics, la Sco, la Rcep, l’Unione economica asiatica e via dicendo sono ormai aggregazioni alternative all’Occidente e cruciali sulla scena mondiale, e la Cina è al centro di questa scena. Il Pil aggregato dei paesi emergenti ha già superato quello del G7 in termini di PPP (Purchasing Power Parity - Parità di Potere d’Acquisto) – 44.558 miliardi di dollari contro 52.151 miliardi (dati Banca mondiale al 31 dicembre 2021). Nei prossimi decenni il Resto del Mondo sarà l’asse portante di un pianeta finalmente davvero multipolare.

7 dicembre 2022


 *Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra i diversi numerosi incarichi ricoperti, è stato Console Generale a Hong Kong (1996-98), Ambasciatore a Pechino (2013-2015) e a Teheran (2008-2012). 

È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea. È autore di saggi e libri, tra cui “Oltre la Grande Muraglia” Ed. Bocconi 2018; “Cina, lo sguardo di Nenni e le sfide di oggi”, Ed. Anteo 2012 

e “Cina, l’irresistibile ascesa”, Teti Editore, febbraio 2022.

 

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