Corte Costituzionale: discriminatorio l’automatismo del cognome paterno - di Vilma Nicolini

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Il 27 aprile scorso, grazie alla sentenza della Corte Costituzionale, le donne italiane hanno conquistato un diritto storico: potranno dare a figlie e figli il loro cognome. Oltre la sentenza, c’è il riconoscimento del valore identitario delle donne nella famiglia, la fine di un’epoca e di una tradizione millenaria radicata.

Cade finalmente un tabù, retaggio di una cultura patriarcale e proprietaria, che la Corte esaminava da oltre un anno. Dopo aver iniziato ad analizzare un caso il 14 gennaio 2021, i giudici hanno sollevato la questione di costituzionalità sulla norma che fino ad oggi aveva bloccato la possibilità, per una donna, di tramandare il proprio cognome a figli e figlie.

La Corte chiarisce che d’ora in poi “la regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico”.

La Corte ha dichiarato illegittime ed anticostituzionali le norme che prevedono “l’automatica attribuzione del cognome del padre, riferite ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio o adottivi”. Scrive inoltre la stessa Corte che sarà “compito del legislatore regolare tutti gli aspetti connessi alla decisione assunta”.

La Corte ha ritenuto “discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre” e spiega che “nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, che costituisce elemento fondamentale dell’identità personale”. Una decisione assunta perché le regole attuali violano gli articoli 2, 3 e 117 primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Era il 2006 quando per la prima volta la Consulta aveva chiesto di intervenire, poiché il solo cognome paterno era “il retaggio di una concezione patriarcale della famiglia e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con il valore costituzionale dell’uguaglianza uomo donna”, esortando l’allora Parlamento a modificare le regole. Dieci anni dopo, nel 2016, un’altra sentenza stabilì che per un figlio o figlia era possibile ottenere il doppio cognome, sia paterno sia materno. Due anni prima, il 7 gennaio 2014, la Corte dei diritti umani aveva condannato l’Italia riconoscendo che “dare ai figli il cognome della madre è un diritto” esortando il nostro Paese ad “adottare riforme legislative di altra natura” per rimediare alla violazione; infine nel 2021 la Consulta ha aperto una questione di legittimità costituzionale su tutta la normativa del cognome.

Come spesso accade quando i temi riguardano la famiglia, non è stato fatto nulla a livello parlamentare - in Senato sono in discussione sei proposte - e l’intero metodo di assegnazione del cognome è stato dichiarato incostituzionale.

Mentre ci rallegriamo per la conquista di un nuovo diritto di parità nella famiglia, non possiamo ignorare che c’è voluta una sentenza della Corte Costituzionale per stabilire che non è normale e legittimo dare in automatico il solo cognome del padre a figli e figlie. Ci sono voluti dei giudici e non dei politici per stabilire che questa consuetudine è “discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio”.

E' un’immagine imbarazzante della politica, che sul fronte dei diritti non riesce a battere un colpo, perché “ci sono sempre cose più importanti a cui pensare”. Sarebbe auspicabile, dopo questa sentenza, che il Parlamento iniziasse al più presto una discussione, ma sarà un percorso difficile, che andrà sostenuto, perché si sono già sollevate le indignazioni di diversi esponenti politici, che spaziano dal disappunto, criticando la Corte, al fatto che si tratti di un problema assolutamente marginale per gli interessi del popolo italiano, in considerazione del periodo critico in cui il Paese si trova e con una guerra che dura da oltre due mesi nel cuore dell’Europa.

È stato sancito un diritto atteso da anni, ma i diritti non sono garantiti per sempre, le crisi possono riportare indietro l’orologio delle recenti conquiste e se arretrano i diritti che riguardano le donne, sono a rischio i diritti di tutt*. Insieme dobbiamo continuare a vigilare e lottare.

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