Partiamo dal presupposto imprescindibile che quando i nostri padri costituenti scrissero la Carta costituzionale ebbero la lungimiranza nell’incardinare la nostra Costituzione nella separazione e nell’indipendenza dei tre poteri fondamentali dello Stato, ovvero esecutivo, legislativo e giudiziario. Potremmo disquisire con pagine e pagine di analisi se oggi, per quanto riguarda i primi due poteri, sia fattivamente così, vista e considerata la marginalità del Parlamento nel discutere e promuovere per propria iniziativa leggi di interesse collettivo.
In parallelo, il potere giudiziario e la magistratura sono dilaniati da un sistema di commistione politica e 'correntismo' che ne hanno minato irrimediabilmente la propria credibilità a causa degli scandali all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) e dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm).
In questo periodo sono in discussione la riforma dell’ordinamento giudiziario e la riforma dell’organo di autocontrollo del Csm. Riforme necessarie non perché ce le chiede l’Europa - scusante che va bene per tutte le stagioni - ma per sottrarre alla politica e al correntismo sfrenato il controllo di un pilastro fondamentale della nostra democrazia.
Le riforme messe in campo dalla ministra Cartabia e consegnate al Parlamento hanno l’ardito senso gattopardiano di voler cambiare tutto per non voler cambiare nulla, con l’aggravante di consegnare alla politica, e quindi ai partiti, il controllo della giustizia e dei magistrati senza colpire veramente il male incancrenito del correntismo, del carrierismo e delle cordate, e delle incursioni sempre più spinte delle influenze partitiche all’interno della magistratura stessa (il caso Palamara insegna).
Paradossalmente, con questa riforma la politica, attraverso il controllo degli orientamenti sui quali indirizzare prioritariamente l’attività giudiziaria, della nomina dei magistrati a capo delle più importati procure italiane, si assicura il controllo di centinaia di magistrati, compresi quelli che della loro indipendenza da fattori politici interni ed esterni hanno fatto la loro ragione di vita professionale. Così come le nomine al Csm, che continueranno ad essere frutto di sponsorizzazioni e cordate.
Sempre questa riforma affronta falsi problemi come quello delle cosiddette “porte girevoli”, quando in Parlamento oggi siedono solo tre magistrati, o della “separazione delle carriere” (da sempre cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi), quando questo invece rappresenta un arricchimento della professione in entrambi i sensi, tenendo in considerazione che solo il 4% dei magistrati passa a fare il giudice e viceversa. Per ultima la durata dei processi, dove genericamente viene tutto relegato alla negligenza, quando invece la realtà è che il numero di giudici e magistrati in rapporto alla popolazione e ai procedimenti è totalmente insufficiente.
Tutta questa riforma è in nome di un efficientamento della macchina giudiziaria, la quale ha necessariamente bisogno, dicono, di essere riorganizzata secondo gli standard occidentali ed europei. Ma non si tengono in considerazione almeno due elementi critici che caratterizzano i procedimenti civili e penali: il primo è che le piante organiche dei tribunali italiani sono sottodimensionate e ridotte all’osso, sia nell’apparato tecnico che nel numero dei magistrati e giudici in rapporto al numero dei processi che celebrano. Il secondo punto riguarda la complessità dei processi penali istruiti e celebrati contro le associazioni mafiose che richiedono una verifica minuziosa degli atti e degli eventi. Per cui, se davvero vogliamo pretendere una “giustizia giusta” in tempi congrui e che la legge sia veramente uguale per tutti, questa riforma ha il sapore di una grande occasione persa per il Paese.
Un altro tema di discussione, e sul quale il Parlamento dovrebbe legiferare entro metà maggio, è la riforma dell’ergastolo ostativo, ovvero la riforma del art. 41 bis che colpisce i capi delle organizzazioni mafiose e tutti coloro che si sono macchiati negli ultimi trent’anni di crimini orrendi e delle stragi nel nostro Paese.
Partiamo con l’affermare che non è assolutamente vero che questa riforma ce la chieda l’Europa per mezzo della Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu). Inoltre occorre sottolineare che i governi italiani non si sono opposti minimamente alla sentenza della Corte europea quando ha sentenziato che l’ordinamento del carcere duro non è conforme al diritto internazionale. Quindi possiamo tranquillamente affermare che la Corte ha preso un granchio enorme, non considerando le motivazioni specifiche per la quale alcuni detenuti mafiosi sono sottoposti a questo provvedimento.
Questo regime carcerario, disposto all’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario italiano, fu pensato e voluto da Giovanni Falcone per togliere ai mafiosi la possibilità di continuare a comandare anche dal carcere, come avveniva precedentemente, limitandone in maniera considerevole i contatti con l’esterno. E se pensiamo che il carcere duro in questi trent’anni è stato l’unico elemento che i mafiosi temevano veramente, tanto da essere oggetto imprescindibile delle richieste di Totò Riina nel “papello” oggetto della cosiddetta trattativa “Stato mafia”; se l’opinione pubblica sapesse che più volte capi mafia del calibro, per esempio, dei fratelli Graviano (mandanti ed esecutori della strage di via D’Amelio e delle stragi di Milano, Firenze e Roma) oppure Pietro Aglieri (per molti anni numero due di Cosa Nostra) chiedono la revoca del 41 bis, dichiarandosi verbalmente dissociati da Cosa Nostra, capiamo bene che da una parte cadrà uno strumento fondamentale ed efficace di contrasto alle mafie del nostro Paese, dall’altra disincentiverà al contempo anche la collaborazione con la giustizia, che ha efficacemente rappresentato la chiave per addentrarci all’interno del fenomeno mafioso, capendone le dinamiche e assicurando alla giustizia centinaia di carnefici, risparmiato vite e la confisca di patrimoni economi immensi. Ed è chiaro che la storia ci insegna, attraverso i magistrati antimafia, che la prima leva che fa scattare il salto del fossato, abbracciando la collaborazione con la giustizia, sia appunto il regime carcerario previsto dal 41 bis.
Dunque oggi constatiamo amaramente che, dopo trent’anni, e per giunta a ridosso del trentesimo anniversario della strage di Capaci, potrebbe concretizzarsi positivamente la richiesta di Totò Riina. È vero che il provvedimento iniziale della ministra Cartabia è stato modificato, stringendo le maglie e vincolando ad ulteriori approfondimenti da parte dei magistrati antimafia competenti, ma è anche vero che si rischia di aprire una crepa all’interno di un ordinamento che ha prodotto risultati tangibili grazie all’impermeabilità tra i boss nelle carceri e le famiglie che tutt’ora comandano nei territori.
Il rischio ormai pressoché concretizzato è che l’attenzione nei confronti del fenomeno mafioso oggi sia ai minimi termini. L’opinione pubblica, la politica, le istituzioni considerano la lotta alla malavita organizzata una non priorità solo perché questa non spara più da un decennio. Da Provenzano in poi le mafie all’odore del tritolo hanno preferito l’odore dei soldi e la silenziosa tattica dell’insabbiamento, del trasformismo, della commistione politica, inserendosi nel sistema economico legale attraverso investimenti di enormi capitali in tutto il territorio nazionale e gli appalti. Oggi le mafie non hanno più l’identikit del mafioso del secolo scorso, ma di professionisti, avvocati, consulenti investitori e colletti bianchi, difficilmente riconoscibili all’apparenza.
Allora credo sia giusto sollevare un dibattito dentro e fuori la Cgil, facendoci promotori nell’interesse collettivo di una giustizia giusta, trasparente e indipendente secondo il solco tracciato dalla nostra amata Costituzione. Questo alla luce anche dei prossimi referendum sulla giustizia promossi dalla Lega di Salvini: noi, come organizzazione, siamo chiamati, per il ruolo che giustamente rivendichiamo nella società e nel mondo del lavoro, a prendere una posizione chiara e netta rispetto al tema. Schierarsi al fianco di chi, come il giudice Nino Di Matteo, ha speso fin qui la propria vita in ragione del valore più alto della giustizia e della Costituzione per rendere questa società migliore, dovrebbe essere un atto naturale e privo di tentennamenti.
La giustizia sociale che, come organizzazione sindacale, vogliamo affermare, è in molti casi negata, spesso siamo costretti a cercarla attraverso i tribunali, quindi i giudici e la magistratura. Per cui credo che dobbiamo assumerci l’onere e l’onore di rappresentare il nostro punto vista difronte al Paese, a maggior ragione quando viene messo in discussione, come in questo caso, l’equilibrio dell’ordinamento dei tre pilastri democratici dello Stato e della Costituzione.
Dobbiamo batterci strenuamente perché anche gli ultimi, la gente comune e coloro che non possono permettersi fior di avvocati possano rivendicare uguaglianza e giustizia difronte alla legge.