Brasile: il ritorno di Lula - di Vittorio Bonanni

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Luiz Inacio Lula da Silva, già presidente del Brasile per due volte, dal 2003 al 2011, leader del Partito dei lavoratori (Pt) e prima ancora alla testa del sindacato dei metalmeccanici brasiliani (Sindicato dos Metalurgicos do Abc), ha molte probabilità di tornare ad occupare il Palácio do Planalto a Brasilia progettato dall’architetto Oscar Niemeyer. Ad ottobre si voterà e l’ex capo dello Stato del Paese più grande dell’America latina potrebbe farcela a battere l’attuale presidente Jair Bolsonaro, di estrema destra, negazionista nei confronti della pandemia di coronavirus e poco attento, per usare un eufemismo, alle politiche ambientali e di tutela dell’Amazzonia.

La strada è tutt’altro che in discesa, come sembrava in un primo momento. Gli ultimi sondaggi lo danno ancora saldamente in testa con il 41% dei consensi contro il 32% del suo avversario, il quale però ha ridotto di ben cinque punti il distacco. Secondo un sondaggio condotto dalla società di consulenza Fsb tra il 22 e il 24 aprile, il leader della sinistra brasiliana avrebbe perso due punti rispetto al precedente rilevamento, effettuato a marzo, mentre Bolsonaro ne ha guadagnato tre. Al terzo posto, con il 9%, appare Ciro Gomes, candidato del Partito democratico laburista (Pdt, di centrosinistra). Rassicuranti sono invece i dati relativi a un eventuale ballottaggio, che vedrebbe Lula ottenere il 52% contro il 37% di Bolsonaro, anche se all’inizio dell’anno il distacco tra i due era di ben venti punti.

Il ritorno di Lula sulla scena politica non è stato certo dei più semplici. Nel 2016 venne coinvolto nell’operazione “Lava Jato”, una sorta di 'mani pulite' brasiliana. Venne accusato di corruzione per aver preso denaro dalla Petrobras e condannato il 12 luglio del 2017 dal giudice Sergio Moro, in evidente conflitto di interesse visto che quest’ultimo divenne ministro della Giustizia con Bolsonaro. Dopo innumerevoli controversie, Lula venne prosciolto definitivamente il 7 marzo 2021, riacquistando i suoi diritti politici. Queste vicende giudiziarie gli impedirono ovviamente di partecipare al voto del 2019, dove era largamente favorito. Fu insomma vittima di una sorta di colpo di Stato giudiziario.

La rimonta di Bolsonaro di queste ultime settimane costringe Lula a convincere una parte dell’elettorato moderato o di destra a non optare per un uomo che ha sulla coscienza migliaia di morti per come ha condotto la campagna anti-Covid. Una delle ragioni del recupero dell’attuale capo dello Stato è stato il ritiro dalla competizione elettorale di Sergio Moro, come dicevamo ex giudice ed ex ministro della Giustizia.

Lula dovrebbe affermarsi nel Nordest, la regione più povera del Paese, mentre nel resto del Brasile lo scenario appare incerto. Nella sua campagna, finalizzata a recuperare i punti persi, si inserisce la scelta di candidare come vice-presidente Geraldo Alckmin, 64 anni, suo ex avversario alle presidenziali del 2006, esponente del moderato Partito socialista brasiliano (Psb). L’ex sindacalista può spendere a suo favore i risultati raggiunti nei suoi otto anni di presidenza, durante i quali, sostiene Claudio Madrigardo, analista politico del continente latinoamericano e giornalista, “ha saputo favorire la crescita economica aumentando la spesa pubblica, onorando il pagamento dei debiti con il Fondo monetario internazionale e incrementando fino a 288.500 milioni di dollari le riserve valutarie del Paese. In ciò - aggiunge Madrigardo - come altri governanti latinoamericani che hanno condiviso la stessa sorte, è stato favorito dal congiunturale aumento delle materie prime e dal boom delle esportazioni verso la Cina; mentre numerose scoperte di giacimenti petroliferi in oceano hanno trasformato il Paese in una superpotenza energetica”.

Tutto questo senza dimenticare “Bolsa Família”, un fiore all’occhiello della politica di Lula, che ha fatto uscire dalla povertà estrema quaranta milioni di brasiliani, mentre sul fronte della riforma agraria le aspettative furono invece disattese. Ed è proprio questa politica un punto sul quale fare leva per garantirsi consensi importanti. Grazie a Lula il Brasile era uscito dalla mappa mondiale della fame della Fao, mentre con Bolsonaro vi ha fatto rientro, a causa delle forsennate politiche liberiste che hanno tagliato quei pochi fondi messi a disposizione per sanità e istruzione.

L’altra e sorprendente carta che Lula vuole giocare è quella della moneta unica latino-americana. Durante una recente conferenza stampa del Partito socialismo e libertà (Psol) l’ex presidente brasiliano ha dichiarato l’intenzione di creare “una valuta in America Latina in modo da non avere questo problema di dipendere dal dollaro e per favorire il processo di integrazione della regione”. Forse una proposta azzardata, viste le notevoli differenze che caratterizzano i diversi Paesi del continente, e che tuttavia darebbe sovranità monetaria ai vari Paesi che soffrono economicamente anche a causa della fragilità internazionale della loro divisa, che li mette in condizione di dover sempre ricorrere al dollaro statunitense.

 

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