Francesco Mandarini, il presidente figlio del popolo - di Fabrizio Marcucci

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La scomparsa di Francesco Mandarini, figura profondamente innestata con la storia dell’Umbria, è l’occasione per ragionare della regione stessa in cui Mandarini, da esponente del Partito comunista, è stato protagonista politico di primo piano fino a diventare presidente della Giunta regionale dal 1987 al 1992.

L’Umbria è una regione che ha avuto una lunga frequentazione con una interpretazione minoritaria ma assai significativa del comunismo italiano, quella ingraiana. Il leader della sinistra del Pci ha infatti intessuto con la regione una relazione intensa che lo ha portato a essere il capolista del partito per diverse tornate elettorali. Ne è scaturita una generazione di ingraiani umbri, di cui Mandarini è stato illustre esponente.

Tra i sostantivi cui si ricorre più frequentemente per definire l’ingraismo ci sono “eresia” e “eterodossia”, termini che designano una adesione sempre critica da cui consegue una lettura personale, anticonformista e antidogmatica dei fenomeni. Non era casuale l’attrazione che in Ingrao esercitavano linguaggi come la poesia e il cinema. Era come se il processo di rivoluzione non venisse confinato all’ambito politico-economico ma si prestasse attenzione alle facce diverse del poliedro di cui sono composte le persone.

Ingrao incarnava in questo senso la quintessenza del concetto di egemonia gramsciana. Tutto questo si è tradotto in una attenzione ai cambiamenti e a un’apertura della sinistra del Pci alle tendenze più evolutive della società italiana – i movimenti del ‘68 e del ‘77, il femminismo, l’ambientalismo, il pacifismo – che non ha trovato analogo riscontro in altre anime di quel partito.

Lo stesso rapporto intessuto da Ingrao col “manifesto”, anche dopo la radiazione del collettivo sentenziata dal Pci, è frutto dell’eterodossia. Non è un caso che l’ingraiano Mandarini abbia continuato a profondere il suo impegno in una battaglia cultural-politica che si è tradotta nel diventare presidente della società che editava “il manifesto”, e nell’essere tra i fondatori del mensile “Micropolis”, che esce in Umbria allegato al quotidiano ogni primo mercoledì del mese.

È questo l’impasto di elementi che ha fatto in modo che Mandarini, da operaio della Perugina, sia diventato prima assessore regionale in una Giunta presieduta da un altro operaio, Pietro Conti, e poi sia arrivato a essere lui stesso presidente. Oggi sembra fantascienza, ma una volta c’era un partito che non solo si proponeva di rappresentare gli interessi delle persone provenienti dalle classi subalterne, ma le portava letteralmente al governo. E c’era una regione che, attraverso la sua classe politica, riusciva a “prendersi” il Parlamento.

Per due volte, prima con quattro sedute tra l’11 e il 17 gennaio 1960, e poi tra il gennaio e l’aprile del 1966, la “questione dell’Umbria” fu posta al centro del dibattito alla Camera. Ci arrivò a causa delle sue penose condizioni. Bastano due dati a fotografare la situazione. Il primo: nel censimento del 1951 si rilevò che il 14% dei residenti in Umbria era analfabeta, il tasso di gran lunga più alto nelle regioni del centro Italia. Il secondo: nel 1961 il 41,9% della terra veniva coltivata da mezzadri a beneficio di latifondisti. Ecco perché la Camera prese atto del “particolare stato di depressione dell’economia della regione Umbria”, e predispose un Piano apposito.

Ricerche, programmazione, Piani. Tutte formule sotterrate dalla retorica del fare che ha fagocitato l’invito allo studio, costante di Mandarini. Ma c’è anche di più: quella mole di studi, quelle progettazioni, quei dibattiti in cui l’Umbria “si prese” il Parlamento dicono che questa regione è stata costruita essenzialmente dalle risorse e dall’elaborazione pubblica, non certo facendo leva sull’iniziativa privata che, nonostante ciò, nel frattempo è riuscita a diventare l’alfa e l’omega delle politiche istituzionali.

A partire dagli anni novanta, dopo la caduta del muro di Berlino, sotto le cui macerie oltre a un regime insopportabile è rimasto anche il sogno di riscatto delle classi subalterne, è cominciato a cambiare il quadro. Tanto che si è fatta strada la definizione “partito degli amministratori”, e politica è diventato sinonimo di amministrazione più che di elaborazione. Ciò ha relegato lo studio, la costruzione di prospettive, l’emancipazione di chi sta sotto, ad anticaglie da mettere in soffitta. Ed è diventato fantascienza eleggere un presidente operaio.

Sono questi alcuni tra i motivi che rendono la scomparsa di Mandarini, oltre che dolorosa, un utile motivo per ragionare sull’Umbria a cavallo tra ciò che era e ciò che è, immagine riflessa di uno specchio che pare deformante, e che invece restituisce bene l’idea di una regione che vive oggi nel passato dei privilegi che un tempo si pensava di aver definitivamente abbattuto. Il tempo in cui i figli del popolo diventavano presidenti.

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