Il tempo è adesso, dopo che il governo ha trascinato un finto confronto quasi oltre il limite. Ma la manovra di bilancio, presentata alla Commissione europea prima che alla stessa maggioranza di “unità nazionale”, per non dire del Parlamento, era ed è blindata.
Una manovra espansiva, 30 miliardi che non si vedevano da ben prima della pandemia. Un “tesoretto” – sempre a deficit, è bene ricordarlo – che viene dall’importante rimbalzo del Pil dovuto all’enorme sacrificio delle lavoratrici e dei lavoratori, a partire da quelli essenziali che, a rischio della salute e della vita, hanno garantito la tenuta e ripresa dell’economia anche durante i lockdown e le pesanti restrizioni per contenere il dilagare del virus.
Ma espansiva non significa di per sé equa, redistributiva, sociale. Questa del “governo dei migliori” non è solo inadeguata, come hanno detto le segreterie Cgil Cisl Uil, ma sbagliata, di continuità con le politiche liberiste e di primato del mercato, ordoliberista come è del resto l’impianto del Pnrr. Regressiva. Chi parla di “luci e ombre” non ne vuole cogliere il segno classista, l’ulteriore restrizione del perimetro pubblico con investimenti pubblici, nel Pnrr, su sanità (comunque insufficienti) e infrastrutture, ma la gestione data al privato, profit o terzo settore che sia. Con il collegato alla legge di bilancio che ripropone l’autonomia differenziata, cioè l’amplificazione della disastrosa gestione di 20 diversi servizi sanitari regionali, tragicamente falliti durante la pandemia, e il ddl concorrenza che privatizza i servizi pubblici locali, facendo strame del referendum del 2011 per la ripubblicizzazione dell’acqua.
Non c’è niente sulle pensioni e il futuro previdenziale di quanti sono nel contributivo, con il governo che ha cercato di barattare il ritorno alla Fornero con un tavolo di confronto, mai convocato, e ha imposto quota 102. Niente sulla stabilità del lavoro, mentre la “ripresa” produce solo posti di lavoro precari, penalizzando ancor di più donne, giovani e Mezzogiorno. Niente sulle politiche industriali, su un intervento pubblico che impedisca le delocalizzazioni e imponga vincoli occupazionali alle multinazionali. Sono fumosi gli impegni sugli ammortizzatori sociali universali; e c’è poco o niente sulla non autosufficienza, e sulle richieste dei pensionati per recuperare parzialmente la più che ventennale perdita di potere d’acquisto.
Sono tutte ragioni che avevano avviato la necessaria mobilitazione unitaria, con le assemblee nei posti di lavoro e le manifestazioni regionali in corso. Ma qualsiasi ulteriore dubbio sul segno di classe del governo è stato fugato dall’accordo di maggioranza sul bonus fiscale di 8 miliardi, che il sindacato chiede di destinare interamente a lavoratori e pensionati, a partire dai redditi più bassi.
Invece si vuol fare tutto il contrario. Un miliardo alle imprese per il taglio dell’Irap, che finanzia la sanità. Poi, anticipando una “riforma” fiscale trainata dalla destra della flat tax, i 7 miliardi sull’Irpef si usano per ridurre la progressività, portando da cinque a quattro le aliquote, e abbassando quelle intermedie a favore dei redditi medio alti. Mentre l’Irpef è pagata per il 90% da lavoratori e pensionati, l’85% dei lavoratori dipendenti avrebbero “benefici” inferiori ai 200 euro annui, a fronte dei redditi da 40mila euro in su che riceverebbero fino a 800 euro, e ben oltre i 250 quelli oltre i 75mila. A favore dei quali la destra (Lega, Forza Italia, Italia Viva) si è opposta anche al contentino di sterilizzare per un anno il beneficio, a favore di un fondo per la riduzione delle bollette energetiche.
La misura è colma. Le vertenze sulle piattaforme unitarie non si concludono con la legge finanziaria, ma non sono accettabili né la manovra così com’è, né la distribuzione alla rovescia della riduzione fiscale, pessimo prodromo della futura “riforma”, dalla quale è completamente scomparsa la tassazione delle grandi ricchezze.
Nel Comitato Direttivo del 3 dicembre la Cgil ha deciso di proporre a Cisl e Uil la continuità della mobilitazione, lo sciopero generale, possibilmente unitario, sulla base del mandato ricevuto dall’Assemblea Generale. Dev’essere chiaro a tutto il Paese che le scelte di maggioranza e governo non sono compatibili con il necessario cambiamento, la lotta alla diseguaglianza, la centralità del lavoro. Ce lo chiede la nostra gente: coerenza e determinazione, continuità della mobilitazione, risposte adeguate.
Lo sciopero generale non conclude la lotta. Ma, nella nostra piena autonomia, è il passo necessario per conquistare il rispetto delle controparti e portare a casa risultati strutturali e di prospettiva, oltre quelli limitati già raggiunti. Il passo che ci riporta in sintonia con la nostra base attiva, e che risponde in positivo alla crisi di fiducia che serpeggia tra le lavoratrici e i lavoratori.