Il mondo dei riders, ovvero le persone che portano le consegne per le multinazionali del delivery, è un mondo che tutti vedono, di cui moltissimi si servono, ma continua a essere sconosciuto e sommerso. Molti, in perfetta buonafede, confondono i riders delle grandi multinazionali con i fattorini dei locali, soprattutto pizzerie, o dei negozi che per proprio conto organizzano la consegna a domicilio. Apparentemente si tratta dello stesso lavoro, ma con una sostanziale, profondissima, differenza: i riders lavorano per multinazionali miliardarie, i fattorini fanno consegne (generalmente molte meno rispetto a un rider) direttamente per il proprietario del locale. Ebbene, la differenza è proprio nel datore di lavoro (azienda multinazionale o singolo privato), e nell’organizzazione del lavoro conseguente.
Il rider, oltre a dipendere da una multinazionale, ha un lavoro costante, quotidiano, organizzato in ore da un’app con un algoritmo, spesso su tutto l’arco della giornata. Il fattorino di un locale lavora poche ore al giorno, spesso non tutti i giorni, in un accordo con il proprietario del locale che lo vede impegnato solo se ci sono consegne da fare. E, spiace dirlo, purtroppo quasi sempre in nero.
La situazione dei riders è molto più complessa, tanto da poter definire questo ormai un vero e proprio lavoro a tutti gli effetti: lo si svolge tutti i giorni, per più ore al giorno. Quel che lo distingue è nella indistinta forma contrattuale che lo riguarda: un contratto, firmato sempre online dal lavoratore, che lo impegna a svolgere il proprio lavoro con un orario indefinito e con paghe indefinite.
Sappiamo bene quanti lavori atipici sono sorti negli ultimi decenni, tutti contraddistinti da forme mascherate di sostanziale sfruttamento della forza lavoro. Il rider, se svolge il proprio lavoro sotto i 5mila euro annui, è sottoposto a una ritenuta d’acconto alla fonte pari al 20%. Se invece supera quella cifra, è costretto ad aprire una partita Iva: in sostanza un lavoratore autonomo con una finta autonomia.
Perché non possiamo definirlo autonomo? Perché assoggettato a un algoritmo che decide l’apertura del calendario, la gestione delle ore, l’invio o meno di ordini. In pratica si prendono delle ore (quando si trovano) e si attende l’ordine, che può arrivare o meno. Non di rado un rider può trovarsi nella situazione di non vedersi assegnare ordini per un’intera ora o più, buttandola via senza alcun compenso, oppure può trovarsi in un’ora a fare solamente un ordine pagato un paio di euro.
Se a questo aggiungiamo che userà mezzi propri per le consegne, e quindi andrà incontro anche a spese di carburante e, alla lunga, di usura del mezzo, possiamo comprendere a quanto poco si riduca il guadagno.
Qualcuno si chiederà: perché farlo allora? La risposta è semplice e la troviamo nella disoccupazione che sempre più brucia vite giovani e purtroppo, spesso, anche meno giovani. I riders infatti non sono solo giovanissimi. Provate a osservarli e scoprirete uomini e donne di ogni età, anche anziani. Personalmente ho quasi sessant’anni, e mi ritrovo rider dopo vent’anni di lavoro e moltissimi anni di disoccupazione.
A fronte di tutto questo, moltissimi riders hanno iniziato la loro lotta per i diritti. Accanto a loro molte sigle sindacali, a cominciare da Nidil Cgil. Ad oggi possiamo dire di aver vinto una grossa battaglia con Just Eat, che da mesi è uscita da Assodelivery, l’associazione delle multinazionali del delivery, e ha deciso di contrattualizzare i propri riders: tempo indeterminato con il contratto collettivo nazionale del settore Logistica, Trasporto, Merci e Spedizioni. Un contratto certamente ancora non perfetto, con molte luci e ombre, da monitorare. Ma un grande passo avanti rispetto alla situazione dei colleghi riders delle altre multinazionali.
La situazione per i riders delle altre piattaforme è di lotta prima di tutto per vedersi riconosciuto il diritto a giuste paghe, visto che, soprattutto negli ultimi mesi, la costante da parte delle multinazionali del delivery è di un continuo ribasso delle tariffe con cui i riders vengono pagati, pur restando nei limiti indicati da quel che loro definiscono come contratto nazionale e che invece tale non è. Sul punto, recentemente il Tribunale di Bologna ha messo la parola fine a ogni equivoco possibile, definendo illegittimo l’accordo firmato da Assodelivery con Ugl e spacciato appunto come contratto nazionale.
Vi sono state giornate di sciopero, una nazionale il 26 marzo di quest’anno, molte locali. Perdura un costante stato di agitazione visto che Glovo, Deliveroo e le altre piattaforme sono sorde a ogni richiamo e indisponibili a ogni confronto. Una situazione quindi molto difficile, che comporterà una lunga battaglia. Una battaglia che Nidil Cgil intende combattere senza esclusione di colpi e alla luce del sole, affinché anche questi lavoratori possano avere tutele, diritti e la certezza di un contratto regolare e riconosciuto, come tutti i lavoratori dovrebbero avere.