Non ci siamo girati da un’altra parte, facendo finta di nulla. Noi ci abbiamo provato.
Il progetto di Resq nasce in un periodo molto preciso, il periodo storico in cui il nostro paese decide di porre fine ad una esperienza eccezionale come quella della missione Mare Nostrum - missione che ha portato in salvo migliaia e migliaia di vite umane - e inizia a mettere in campo politiche che, invece di affrontare il tema dell’immigrazione riprogettando sistemi e canali di accoglienza, virano su una politica che mette al centro la difesa delle nostre frontiere.
Nei primi mesi del 2018, la Camera del Lavoro di Milano, insieme a una rete di associazioni che da tempo lavorano insieme sui diversi aspetti del sociale, decide di organizzare una risposta a un clima crescente di razzismo e di intolleranza. La grande manifestazione del 20 maggio 2018 “Milano senza muri” un po’ rilancia l’importanza di politiche territoriali all’insegna dell’accoglienza, un po’ comincia a mettere in campo una opzione culturale che contrasta la continua deriva securitaria e, di conseguenza, la cancellazione dei diritti. Ricordo a tutti che in quel periodo il ministro dell’Interno era Marco Minniti (Pd), e la Cgil fu molto autorevolmente contraria a quella deriva.
Il primo giugno 2018 giura il governo Conte I e il ministro dell’Interno diventa Matteo Salvini. Si consolida in modo drammatico una politica di forte contrasto ai flussi migratori, si rafforzano le iniziative di veri e propri respingimenti, anche attraverso la fornitura di mezzi e risorse alla “guardia costiera” libica, e soprattutto si intensifica una narrazione che individua nelle Ong soggetti di sostegno alla rete dei trafficanti del mare, con veri processi di criminalizzazione. Intanto nel mare Mediterraneo continua la conta giornaliera di naufragi e di morti.
Il 26 giugno 2019 Carola Rackete, capitana della nave Sea Watch, decide di forzare il divieto di entrare in porto imposto da Salvini, per fare sbarcare i migranti salvati in mare e tenuti per quattordici giorni in balia delle onde, perché sulla loro pelle si giocava l’affermazione della nuova politica del governo italiano, quella cioè dei porti chiusi e di difesa dalla “invasione” migratoria.
Resq nasce formalmente il 19 dicembre del 2019, ma l’idea è figlia della vergogna e dell’indignazione, della rabbia di quei mesi. Alcuni di noi, figli di anni di impegno sociale e artefici di iniziative volte alla difesa dei diritti e di progetti di accoglienza, si sono detti che non bastava più organizzare presidi, firmare appelli di denuncia, sventolare le nostre bandiere: occorreva una risposta anche concreta, una scelta di campo precisa. Ci siamo detti ‘compriamo una nave e mettiamola in mare, una nave di cittadini italiani che insieme realizzino un progetto con l’obiettivo di salvare vite umane, sognando un tempo in cui non ci sia più bisogno delle navi di soccorso della flotta civile, un mondo in cui nessuno sia costretto a rischiare la vita in mezzo al mare’.
Nessuno di noi aveva l’idea di cosa volesse dire comperare una nave, ne cosa sarebbe servito per condurla in mare a fare attività di soccorso. E nessuno di noi aveva previsto che di lì a poche settimane sarebbe scoppiata la pandemia che avrebbe stravolto e compromesso la nostra quotidianità e la nostra modalità di svolgere attività e di iniziative. Ma la cosa che abbiamo riscontrato è che, nonostante tutte le difficoltà, le stesse che abbiamo avuto nella attività sindacale, la concretezza della proposta, e la voglia di dare una risposta a una politica di aggressione ai diritti e alla troppa indifferenza, ci ha fatto riuscire a raccogliere la somma per comprare una nave e metterla in mare. Con il risultato immediato di aver salvato, nelle due prime missioni, 225 persone, bambini, donne e uomini che sono approdati in un porto sicuro anziché in fondo al mare o nelle prigioni libiche.
Ma non è finita qui. Perché è vero, come noi di ResQ spesso diciamo, che non vedevamo il momento di scendere in mare e ora non vediamo l’ora che non ci sia più bisogno di noi. Ma quel tempo è ancora di là da venire, per cui c’è ancora bisogno di pattugliare quel pezzo di mar Mediterraneo, che sta diventando un vero e proprio cimitero di vittime in cerca di un futuro per loro e per le loro famiglie, o di strapparli, in una corsa sempre più esplicita, alla cattura delle motovedette libiche che le riporterebbero in un circuito infernale di detenzione e sevizie. Servono quindi ancora persone che sostengano economicamente le prossime missioni, sapendo che ogni missione ha un costo di circa 150mila euro. Da qui la necessità di far conoscere e di informare più persone possibili del progetto per “farle salire sulla nostra nave perché diventi la nave di tutti”.
ResQ People è nata perché nessuno può essere lasciato annegare in mezzo al mare. Ma il compito che noi assegniamo alla nave è anche un altro: quello cioè, oltre ad avere a un equipaggio di marinai e di persone preposte al salvataggio, di costruire quelli che noi chiamiamo gli equipaggi di terra, che possono essere nelle nostre comunità locali o anche nei luoghi di lavoro o in realtà associative. Alcune Camere del Lavoro e la Cgil Lombardia, ad esempio, hanno sposato il progetto, così come quasi novanta associazioni sul territorio.
L’equipaggio di terra, oltre a sostenere economicamente la nave, diventa il luogo che racconta le storie di quello che la nave osserva, le persone che salva, le presenze o le assenze in quella parte di Mediterraneo, l’arroganza della “guardia costiera” libica esibita con le navi e le armi donate dal governo italiano, quelle che continuiamo a fornire loro. L’equipaggio di terra è il modo, attraverso la nave, di cambiare la narrazione che sui processi migratori ci è stata costruita e propinata in questi anni; cambiare la narrazione e conseguentemente cambiare le politiche del nostro paese e dell’Europa, perché rimettano al centro i temi del rispetto dei diritti umani e della dignità di tutti.
Sembra un sogno lontano, poco realizzabile. Lo era per noi anche quello di comprare una nave e di salvare persone: i sogni a volte si avverano. Ma in attesa che si realizzino già mettersi nella condizione di realizzarli riempie di senso le nostre azioni, rafforza l’identità di sentirci parte di una comunità che rifiuta l’odio e costruisce legami, relazioni e solidarietà, che dà senso alle attività quotidiane che facciamo e che, soprattutto, lascia un segno per quando la storia un giorno ci chiederà conto di quello che abbiamo permesso accadesse nel nostro mare. Noi non ci siamo girati da un’altra parte, facendo finta di nulla. Noi ci abbiamo provato.
Per tutte le domande alle quali non ho dato risposta abbiamo un sito molto ben costruito e pagine social governate dalla nostra Cecilia Strada: https://resq.it/