Il governo non ha voluto mantenere il blocco dei licenziamenti almeno fino al 31 ottobre per arrivare alla riforma degli ammortizzatori. Erano evidenti i limiti dell’inusuale “presa d’atto”, per il disimpegno e la crescente crisi di rappresentatività di Confindustria e delle associazioni padronali. Se non è ancora una valanga, si stanno moltiplicando i casi di chiusure, delocalizzazioni e licenziamenti di massa.
Ci meravigliamo che, davanti alla libertà di licenziamento delle imprese e all’arroganza padronale, ci sia chi si meraviglia. I partiti progressisti e la sinistra di governo scoprono solo ora la lotta tra capitale e lavoro. E che licenziamenti collettivi, chiusure di aziende e delocalizzazioni rendono evidente la sconfitta e l’impotenza dello Stato, e il mancato rispetto della Costituzione. Scoprono che le norme europee e molte leggi italiane confermano il dogma del libero mercato e della centralità del profitto, dando forza ideologica e materiale alla volontà padronale di potere reale sulla vita delle persone. La legge di stabilità del 2014, e il decreto dignità del 2018, contenevano regole solo formali per condizionare le delocalizzazioni e si sono dimostrate inefficaci dinanzi a un capitale che si muove a “convenienza globale”, senza vincoli e responsabilità sociale, come vediamo dalla Whirlpool alla Gkn, dalla Gianetti alla Timken.
Lo Stato italiano, a dispetto degli articoli 42 e 43 della Costituzione, non riesce neppure ad attivare sanzioni e recuperare i soldi pubblici messi a disposizione per mantenere le produzioni in Italia. Il governo “dei migliori” non cambia la filosofia del passato: mancanza di visione, e nessuna reale politica industriale che delinei il ruolo del Paese dentro alla nuova fase che si sta determinando nella crisi di sistema, in cui stanno ancora pagando un alto prezzo soprattutto i ceti popolari e il mondo del lavoro. Il dumping sociale e le diseguaglianze trovano origine e si alimentano con le scelte del capitale finanziario e industriale.
Di fronte alla protervia del fondo Melrose Industries, che ha decretato via pec la chiusura dello stabilimento di Campi Bisenzio e il licenziamento dei 422 lavoratori della Gkn, Firenze e Prato sono scese in sciopero generale. Il segnale è chiaro: occorre una mobilitazione a 360 gradi contro l’arroganza padronale, il mancato rispetto degli impegni, la logica predatoria e assistenziale delle imprese che, anche sui fondi del Pnrr, pensano di incassare bonus e incentivi senza alcuna garanzia sull’occupazione. Assecondate in questo da un governo che, finora, ha perso l’irripetibile opportunità di impostare una politica industriale centrata sulla riconversione ecologica, l’intervento diretto dello Stato, la creazione di posti di lavoro stabili e di qualità, il riequilibrio sociale e territoriale. La riforma degli ammortizzatori sociali da noi rivendicata non deve diventare un nuovo strumento delle aziende e di Confindustria per scaricare le proprie responsabilità e il peso della crisi sulla collettività, rompendo il rapporto di lavoro che lega socialmente il lavoratore all’azienda.
L’autunno non potrà che essere caldo, perché insieme alla lotta per il lavoro verranno al pettine le “riforme” legate al Pnrr, e quelle necessarie per affrontare la crisi strutturale del nostro Paese. Le scelte del governo non sono affatto rassicuranti: dopo Brunetta ministro della Pubblica amministrazione, abbiamo Elsa Fornero consulente... . Accade proprio quando rivendichiamo – a fronte della conclusione della limitata “quota 100” – una riforma strutturale della legge sulle pensioni. Mentre le bozze che circolano sul fisco fanno rientrare dalla finestra la flat tax per gli autonomi, spingono ad un’ulteriore riduzione della tassazione sulle imprese, vanno in direzione opposta alla necessaria progressività su tutti i redditi, inclusi quelli finanziari e patrimoniali. Sono scomparsi dai radar i temi del piano straordinario di assunzione nella Pa, della legge sulla non autosufficienza, delle norme di civiltà in tema di immigrazione – tragico il rifinanziamento della “guardia costiera” libica – e di cittadinanza.
Non possiamo gingillarci con improbabili “patti sociali” ma dobbiamo mettere in campo tutto il potenziale della mobilitazione di lavoratrici e lavoratori, pensionati, giovani, precari. A partire da una campagna capillare di assemblee nei posti di lavoro, per condividere le nostre piattaforme e rafforzare e unificare le spinte alla lotta. Gli obiettivi delle nostre rivendicazioni, nel solco del cambiamento radicale che abbiamo indicato nel congresso, vanno rilanciati e coerentemente sostenuti sul piano confederale e categoriale. Ricostruendo un nuovo paradigma e ridisegnando il futuro del Paese, rompendo la centralità del mercato e del profitto. Alla fiera delle ipocrisie dobbiamo contrapporre politiche quali nazionalizzazione, patrimoniale, ridistribuzione del lavoro e riduzione dell’orario, riconquista dell’articolo 18 e di un nuovo statuto dei lavoratori, centralità dei beni pubblici, diritti universali e uguaglianza.