Domenica 11 luglio la pentola in ebollizione della quotidianità cubana ha provocato proteste in molte città. Era facile prevederlo per un mix di eventi. Da circa due anni niente turisti nell’isola con tutto il settore paralizzato, dai bed and breakfast ai taxi e ai paladar. Il Covid ha fatto il resto picchiando duro, nonostante Cuba sia il solo paese latinoamericano in grado di produrre un proprio vaccino che per ora ha immunizzato il 20% della popolazione (al 19 luglio risultavano 288mila casi con 252 mila guarigioni e 1.966 decessi). Aggiungiamoci le ferree nuove norme volute da Trump per rendere più duro il blocco economico – per nulla cambiate da Biden – che hanno perfino bloccato le agenzie che gestivano le rimesse degli emigrati. Non ultimo il fallimento della riforma economica e monetaria avviata recentemente dal governo, che non ha frenato l’esorbitante aumento dei prezzi: si era tentato di abolire il sistema a doppia moneta (‘peso’ a uso interno, e ‘peso’ con valore delle valute straniere), aumentando salari e pensioni. I ritocchi economici hanno creato più problemi. Su tutto questo – com’è ovvio – ci sono le ingerenze esterne degli Usa e delle componenti più estreme dell’emigrazione cubana in Florida. Sarebbe un errore però non vedere le ragioni endogene della protesta: nell’isola scarseggiano medicine, generi di prima necessità, prodotti alimentari.
Quindi a Cuba c’è un’emergenza che ha motivazioni esterne e interne. Bene ha fatto perciò il governo a liberalizzare, senza far pagare franchigia, le importazioni individuali di medicine, beni alimentari e igienici. Bisognerebbe aprire anche canali tipici di queste situazioni: Croce rossa internazionale, Caritas, Medici senza frontiere, ecc., garantendosi la loro imparzialità politica come organismi internazionali. In questo momento, secondo i dati che si conoscono, Cuba non può farcela da sola. Deve aprirsi pure all’aiuto esterno, che presuppone il non arroccamento interno e internazionale.
Qui si pone il problema di come il governo dell’Avana sta rispondendo alle proteste. Le dichiarazioni ufficiali hanno riconosciuto in parte le motivazioni interne, parlando tuttavia soprattutto di azioni organizzate dall’esterno e con un grande dispiegamento di mezzi d’informazione da parte statunitense. Non ci sono state parole autocritiche da parte del presidente Miguel Diaz-Canel sull’uso delle forze di polizia, sull’eccesso di arresti e sul cittadino trentenne ucciso negli scontri a L’Avana. C’è da augurarsi invece l’apertura del dialogo con la maggioranza della popolazione.
Questa è la linea che suggerisce la maggioranza degli intellettuali cubani, preoccupati dell’eventuale escalation proteste/repressione. Tutti i musicisti più noti – da Chucho Valdés a Los Van Van, da Carlos Varela al compositore Leo Brouwer, per citarne alcuni – hanno manifestato il loro sconcerto per ciò che è accaduto. In agitazione è anche il mondo del cinema, che ha espresso il proprio dissenso con l’attore Jorge Pegugorria e il regista Fernando Pérez. Altri artisti hanno messo in discussione la propria adesione all’Uneac (l’Unione degli artisti). In maggioranza non vogliono il muro contro muro tra cubani che vivono sull’isola, dalle conseguenze imprevedibili. Lo ha dichiarato pure Leonardo Padura, lo scrittore cubano più noto all’estero.
Lo scontento alberga in modo evidente soprattutto fra i giovani e fra quelli che hanno un pallido ricordo dei primordi della rivoluzione del 1959, ormai la maggioranza degli 11 milioni di abitanti. Il 25% è compreso nella fascia di età tra 15 e 29 anni, il 20% tra 30 e 44 anni, quasi il 30% tra 49 e 59 anni (dati editrice De Agostini). Diventa quindi vitale recuperare l’interlocuzione con queste fasce di popolazione colpite da crisi economica, Covid, e conseguente assenza di turismo.
Cuba farebbe un errore a scegliere la linea dell’isolamento esterno e interno. Papa Bergoglio ha invitato al dialogo sociale. Lo stesso ha fatto Josep Borrell, responsabile esteri dell’Ue. Analogo auspicio da Bernie Sanders e altri esponenti della sinistra statunitense, che si augurano libertà di manifestare a Cuba unita allo sforzo di mettere finalmente in discussione il blocco economico a stelle e strisce. Questa è anche la posizione della maggioranza della sinistra europea, radicale e moderata. Chi chiede lo scontro frontale per mettere fine al “regime” è una minoranza dello scenario internazionale (come Francis Suarez, sindaco di Miami, che ha auspicato in un’intervista alla tv Fox News l’intervento militare delle truppe di Washington, con tanto di bombardamenti).
Alcuni settori della Casa Bianca sperano che il frutto cubano sia talmente maturo da cadere presto al suolo. Per questo tagliano l’erba a tutti i tentativi di negoziato. È una delle ipotesi in campo, che denota l’inversione di rotta degli Stati uniti dopo il viaggio di Barack Obama a L’Avana del 2016 e il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra le due sponde del golfo della Florida. Difficile prevedere l’evoluzione degli eventi.