La crisi pandemica, al pari di ogni crisi sistemica, ha offerto al capitalismo l’ennesima occasione per ristrutturare l’organizzazione produttiva della società italiana. Il principale strumento di riordino, in questo particolare contesto emergenziale di carattere sanitario, ha assunto le vesti del Recovery plan. Novello piano Marshall, intriso di speranze messianiche capaci di attivare miti arcaici di rinascita e rigenerazione, il Next Generation Eu italico avvolge gli interventi di destrutturazione al ribasso del mondo del lavoro – che riportano le lancette della condizione lavoristica a un passato quasi ottocentesco (in questo confermando le politiche attive di neo-schiavitù tipiche del neoliberismo) – con una vuota retorica sul futuro, i cui protagonisti sarebbero i giovani. Quindi, si procede attivando sacche di regressione, si avanza formulando nuove ideologie progressiste che le legittimino.
Solo due esempi: nel primo caso, il Fondo nuove competenze, una misura di 730 milioni di euro istituito col “decreto Rilancio” del 2020, rifinanziato per il 2021 con quello “Agosto”, prevede un miliardo di ulteriori risorse per il triennio 2022-2024 direttamente dal Recovery fund. Lo Stato cioè paga e pagherà alle imprese i costi di riqualificazione dei suoi dipendenti. Questo vuol dire per le aziende ottenere un aggiornamento della forza-lavoro a costo zero, la cui rinnovata efficienza andrà a incrementare ulteriormente il plusvalore aziendale senza che gli imprenditori siano stati costretti a reinvestirne una quota in formazione.
Secondo caso: come ha dimostrato il report della rete UnoNonBasta, ai giovani, pilastro retorico del futuro della nuova società italiana post pandemia, in realtà il plan destina solo l’1% delle risorse messe a disposizione dall’Europa, a fronte del 10% di Francia e Spagna. Nel 1914, in un testo rimasto inedito e intitolato “Metafisica della gioventù”, il filosofo Walter Benjamin non smetteva di associare la condizione giovanile all’immagine di “immensi campi di macerie”.
Il movimento operaio spesse volte ha saputo utilizzare per i suoi fini le iniziative che il grande capitale gli ha scagliato contro. Non diversamente dovrebbe fare ora. Tornare a scuola dalle classi dominanti, in una circostanza storica come la nostra, vorrebbe dire imparare da loro almeno due cose: “usare” la crisi per ristrutturare le “proprie” organizzazioni del lavoro, “investire” nella formazione dei giovani al sindacalismo. Trasformare ciò che per il capitale è sfruttamento e ideologia in un momento di autovalorizzazione e di verità per la classe lavoratrice.
Ora si fa un gran parlare di sindacalismo di strada, ma se è vero che la strada è una scuola, è altrettanto vero che ci dovrebbero essere scuole che insegnino a stare per strada.
Come procedere? Alcune indicazioni operative: 1) Censire la disponibilità delle strutture esistenti (Camere del Lavoro) a riconfigurare una parte delle proprie attività in scuole di sindacalismo di base, centri di formazione di nuove competenze (a vantaggio queste della crescita umana e politica delle lavoratrici e dei lavoratori di oggi e di domani, una volta tanto non a favore delle imprese) che coinvolgano le forze sociali presenti sul territorio, ad esempio, collettivi delle scuole superiori, associazioni e movimenti animati da un forte spirito critico. 2) Individuare come temi didattici portanti la solidarietà operaia, la democrazia interna, il conflitto, il diritto a una vita gioiosa. 3) Destinare le risorse a disposizione delle Camere del Lavoro alla formazione sindacale di giovani e giovanissime lavoratrici e lavoratori. Ci sono mondi accessibili solo a chi ne fa parte.
In fondo l’obiettivo è molto semplice: sindacalizzare la gioventù, conquistare le giovani e i giovani al sindacalismo, far conoscere cosa sia il lavoro per insegnare loro a difendersi e a reagire allo sfruttamento, prima ancora che lo scoprano sui propri corpi lavorando alle dipendenze di altri.
Questo processo di formazione riguarda l’intera società e non il solo sindacato perché, fino a prova contraria, tutte e tutti noi siamo costretti a vivere necessariamente di lavoro.