L’ultima crisi in Palestina ha alcuni caratteri drammaticamente identici a quelle precedenti, ma altrettanti segnali di novità. Al primo aspetto appartengono le scene di violenza e distruzione di civili inermi a Gaza, bombardati per 11 giorni consecutivi con il tragico “corollario” di morti, tanti di loro bambini, sfollati, e sfacelo civile e morale. La giustificazione da parte dell’esercito israeliano dell’impiego di scudi umani da parte di Hamas, in uno dei luoghi più fittamente popolati al mondo, è indice di un’ottusità crudele che continua a sbalordire.
Adesso, dopo le devastazioni, c’è il cessate il fuoco; ciascuno – Hamas e Netanyahu – dichiara che è una sua vittoria. Fin qui nulla di nuovo, e tutti pronti per la prossima ripetizione dello stesso dramma, come fu nel 2014 o nelle “tornate precedenti”.
Però ci sono novità, le cui conseguenze possono avere esiti del tutto aperti. La prima è la potenza dei missili lanciati da Hamas: mai prima d’ora la gittata aveva permesso di raggiungere città e territori ben dentro Israele; aldilà della natura indiscriminata degli effetti, che colpiscono anche qui civili inermi, questo fatto cambia lo “scenario di teatro”, che piaccia o meno.
In secondo luogo, da molti anni non si registravano scontri in Israele tra cittadini arabi ed ebrei: le cosiddette “città miste”, un tempo esempio di pacifica convivenza, sono diventate luoghi di conflitto, a volte addirittura mortale, tra membri delle diverse comunità. Questo fatto, frutto di anni di predicazione della destra razzista israeliana e del parallelo avvizzirsi del ruolo dell’Anp, può rappresentare un problema gravissimo di pace interna, e di radicamento anche in Israele del fondamentalismo Hamas.
Come terza novità, a questi sinistri scricchiolii ha fatto immediato riscontro una forte e capillare risposta congiunta delle due comunità, con manifestazioni comuni, prese di posizione congiunte di rappresentanti locali delle due comunità, sfociate in dimostrazioni per la pace e la giustizia in Israele, e anche sui social: tutto ciò trascurato dai media mainstream, che non colgono il valore di questi eventi, accecati volutamente dai lampi dei bombardamenti o dalle traiettorie dei razzi.
Infine, ma è forse la cosa più importante, si è assistito alla ripresa di parola nel mondo ebraico della diaspora. La cosa vale in tutto il mondo, dalle prese di posizione di Bernie Sanders alla ripresa dell’hashtag #notinournames usato da diversi giovani ebrei ed ebree italiani, per sganciarsi dall’immediata adesione delle Comunità al “diritto di Israele a difendersi”, sottolineato la sera al Portico d’Ottavia dalla quasi totalità delle forze politiche italiane, con tiepidi distinguo da parte del segretario del Pd.
Questa presa di posizione (https://ilmanifesto.it/not-in-our-names-la-lettera-dei-giovani-ebrei-italiani/) è importante perché non nega la trepidazione per la sorte di amici, parenti, conoscenti che vivono in Israele, possibili bersagli dei razzi di Hamas o di aggressori vari, ma va oltre la vicinanza affettiva e chiede a tutti di interrogarsi sulle cause delle tragedie del passato, e di quest’ultima. E, senza negare le responsabilità palestinesi, chiede conto a chi occupa da 54 anni (a giugno) territori altrui, e compie continui atti che tendono a rendere definitiva l’occupazione (espropri, costruzione dei muri, moltiplicazione di insediamenti illegali, sistema dei check point, deviazione dei corsi d’acqua, devastazione dei campi e delle coltivazioni ecc.).
Ne sono seguite reazioni in parte scomposte (chi scrive, facente parte all’epoca – 1998, mi pare - del gruppo “Ebrei contro l’occupazione”, fu definito “pseudoebreo” da un dirigente della Comunità di Roma, quindi nulla di nuovo…), cui i giovani hanno replicato con una importante presa di posizione che rivendica la pluralità di visioni come tipica dell’ebraismo, dichiarandosi disponibili a dibattiti pubblici.
Ecco, oltre alla commozione di vedere le proprie idee camminare con gambe assai più giovani e – si spera – più robuste delle proprie, mettere insieme questi fatti, molto sinteticamente elencati, farebbe giungere ad una univoca conclusione: che la reazione pavloviana dei supposti vincitori dell’ultima tragedia (Hamas e Netanyahu), che segue lo schema collaudato “provocazione (non importa da chi fatta) - reazione sproporzionata – conflitto – cessate il fuoco a status quo immutato”, può essere ricacciata indietro se da un lato si terrà conto dei cambiamenti segnalati (gittata dei razzi – rischio di frantumazione del tessuto connettivo di Israele), e dall’altro la diaspora continuerà a dare segnali di rinnovata consapevolezza che non ha senso l’identificazione tout court col governo d’Israele, ma che la via per la pace richiede un pluralismo di voci che aiutino tutti a sperimentarne la possibilità. E forse la pressione di Joe Biden per un cessate il fuoco che si vorrebbe più indirizzato al sollievo della popolazione di Gaza, e non solo al sostegno alle ragioni di Netanyahu, segnala che qualcosa può iniziare a muoversi. Un filo esilissimo, ma prima non c’era.