Sono rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale nel territorio di Prato e provincia, nel settore dell’artigianato. Lo sono da tre anni, ma da una vita (e per vita intendo anche l’esperienza di figlia di operai oltre che come studiosa e sindacalista) ho a cuore, studio, mi impegno sul tema di salute e sicurezza. Ho sulle spalle studi e anni di ricerca sociologica che mi permettono di guardare e analizzare un po’ il manifatturiero di Prato, l’humus, il contesto nel quale ha perso la vita Luana D’Orazio, l’operaia tessile di 22 anni rimasta intrappolata e stritolata nel subbio dell’ordito.
Un tempo, del tessuto produttivo tessile pratese se ne sottolineava l’operosità, la flessibilità da terzisti di rispondere alla richiesta del committente in tempi rapidi, i rapporti stretti fra operai e padroni, con gli operai che dopo le innumerevoli ore di fatica sognavano di diventare padroni, il grigio diffuso ma sostanzialmente socialmente accettato perché la torta da spartire era larga e c’era di che campare, piccole e piccolissime imprese a conduzione familiare che inventavano processi e macchinari, portando l’orgoglio pratese in tutto il mondo. Prato ha avuto la sua età dell’oro, poi la crisi, poi le trasformazioni della globalizzazione e il ricatto di qualche altra parte del mondo che fa prezzi più bassi, le colpe facili da dare ai cinesi, infine la pandemia.
Ora chi lavora deve rimediare al tempo perso, deve andare più veloce, farsi corpo ancora più flessibile e adattabile e non si deve lamentare; lavoratrici e lavoratori quotidianamente devono sostituire le assenze per quarantene e contagi. Prato è difatti la peggiore provincia per contagi, come ha confermato la Asl. Tutto questo contesto non salva le vite, anzi soffoca le richieste di prevenzione. Come già ho avuto modo di scrivere, salvano, a Prato come in tutto il paese, le protezioni, l’investimento in tecnologie (perché si investe solo sulle app per sfruttare e molto meno su macchinari, procedure e protezioni?), la formazione seria e non il mercato nero degli attestati, i contratti stabili e senza monetizzazione del rischio, lo studio di filiera e di territorio, lo studio dei lavoratori come cittadini e poi come lavoratori, l’addestramento e il passaggio di consegne di conoscenza delle maestranze, il coinvolgimento dei lavoratori e delle loro rappresentanze nella valutazione dei rischi e nel fare prevenzione.
Fra gli anni ‘60 e ’70, se abbiamo conquistato lo Statuto dei lavoratori e il Sistema sanitario nazionale, lo abbiamo dovuto alle lotte del movimento operaio e a una stretta collaborazione con tecnici, medici, studiosi. Una sinergia che ha saputo fare rete e fare forza. Oggi tutto è frammentato e ognuno guarda al proprio pezzettino, si muove in un magma cercando di salvaguardare se stesso e sempre di più si disperde un patrimonio di relazioni e conoscenza intorno al lavoro e alla salute e sicurezza. Enti pubblici, procure, istituzioni, organi di vigilanza, medicina del lavoro e sindacati sono strutturati più su gerarchie, burocrazie e rigidità che non sul patrimonio di conoscenza e sulla capacità di metterlo in rete. Bisogna non disperdere e riprodurre conoscenza.
Leggiamo spesso dai comunicati sindacali parole di sdegno, di sgomento, di rabbia per le morti sul lavoro. Siamo molto bravi a individuare le mancanze di altri, ma occorre farlo anche all’interno della nostra organizzazione.
Cosa possiamo fare noi? Migliorare e studiare e organizzarsi in maniera più efficace. Gli Rls in questo ci danno la linea: sono figure obbligatorie e formate. Bisogna rafforzarli in strumenti e conoscenza e bisogna creare, diffondere e sviluppare i coordinamenti sia territoriali che di settore. Occorre che il Testo unico per la salute e sicurezza sia patrimonio (almeno nella conoscenza base e generale) di ogni funzionaria e funzionario, e strutturare i dipartimenti non tanto su gerarchie e registri di presenze, ma come conoscenza da cui attingere.
Non abbiamo bisogno di innumerevoli inoltri dei soliti documenti, ma di chi li spieghi e ci aiuti a trovare strumenti e confronti per applicarli, diffondere e condividere buone pratiche abbattendo gelosie o primati di categorie e realtà. Occorre programmare e spendere le risorse su salute e sicurezza e formazione da ogni ente bilaterale, occorre lottare ovunque e non abbassare la guardia sull’applicazione delle norme, occorre che si facciano le verifiche sui programmi che ci diamo ad ogni congresso: quante volte sentiamo parlare di Rls di sito, di filiera e Rlst, e poi quante esperienze concretamente realizzate? Occorre fare rete con chi ci crede in enti, istituzioni, associazioni di familiari di morti sul lavoro, singoli che si impegnano, esperti di comunicazione: sì, abbiamo bisogno di tutti, e non dobbiamo temere né il confronto né l’apertura. Si impara sempre, e la prevenzione è un lavoro più collettivo di altri.