Il grande nulla delle Acciaierie di Piombino - di Riccardo Chiari

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A sette anni dalla chiusura dell’altoforno per decisione governativa (“L’azienda era in perdita...”), gli operai superstiti delle Acciaierie e l’intera Piombino non hanno avuto alcunché da festeggiare, nemmeno per il Primo Maggio. All’iniziativa confederale unitaria organizzata all’ingresso dello stabilimento, lì dove da quasi due mesi c’è un presidio lavoratori, Riccardo Cerza della Cisl ha cercato di rincuorare gli operai: “La fabbrica deve tornare a produrre acciaio, con la presenza dello Stato dentro il capitale. Deve avere l’altoforno elettrico”.

Il dirigente sindacale non poteva dire altrimenti. Ma i 1.700 addetti diretti rimasti, quasi tutti in cig e con un indotto di altri 1.500 lavoratori ormai disintegrato, restano pessimisti. Perché i piani industriali della multinazionale siderurgica Jindal South West sono stati giudicati irricevibili perfino dal governo. Quello giallorosa di Giuseppe Conte, disposto a entrare nel capitale sociale con Invitalia ma a patto che Jindal desse il via a investimenti solo promessi. E quello “dei migliori” di Mario Draghi, che di fronte all’ultimo piano incentrato unicamente su sovvenzioni pubbliche, ha bollato Jindal come “inaffidabile”.

La soluzione, avvertono da anni, inascoltate, sia le organizzazioni sindacali che le forze sociali e politiche locali di sinistra (Prc, Camping Cig), può arrivare solo grazie a un intervento sistemico dello Stato, che tenga insieme rilancio della siderurgia come strumento strategico nazionale, potenziamento delle infrastrutture, e partenza definitiva delle opere di smantellamento e di bonifica. Ora anche la destra che governa la città con il sindaco Ferrari (Fdi) è arrivata alle stesse conclusioni. Intanto però lo stabilimento è fermo. E la lotta operaia - di un’intera città – è sempre più in salita. A causa della totale assenza, come ha sottolineato la Fiom Cgil con Francesca Re David, della politica nazionale.

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