Con la sentenza del giudice del Tribunale supremo federale del Brasile che dichiara illegittima la competenza del Tribunale federale di Curitiba, quindi l’operato del magistrato Sergio Moro, le sentenze che hanno visto condannato l’ex presidente Luiz Inacio Lula da Silva sono annullate. Il giudice Fachin ha ritenuto che le accuse debbano essere valutate dal Tribunale del Distretto federale di Brasilia, in quanto relative a fatti riconducibili ad una dimensione federale, e non di competenza di un singolo stato del Brasile.
Questa sentenza elimina definitivamente l’impianto accusatorio costruito dal magistrato Moro, che aveva fatto della lotta senza regole il trampolino di lancio per la sua carriera politica, al servizio di quei poteri forti che tengono in ostaggio la democrazia del più grande e popoloso Stato dell’America Latina. Ma non restituisce alla democrazia il torto subito togliendo infondatamente, per via giudiziaria, il diritto al cittadino Lula di partecipare alle ultime elezioni presidenziali, con tutti i sondaggi che lo davano probabile vincitore.
Questo uso politico della giustizia fu denunciato alle istituzioni brasiliane dallo stesso Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite, in quanto lesivo di un diritto che, in caso di assoluzione, non si sarebbe più potuto ripristinare. Ma questo era l’obiettivo di una strategia ancora più ampia che, utilizzando il sistema giudiziario, mirava all’eliminazione di ciò che 14 anni di governo del Partito dei Lavoratori (Pt) aveva prodotto in leggi e misure sociali, che hanno permesso a milioni di esclusi di rientrare nella società. Ripristinando così la supremazia degli interessi e dell’identità, razzista, dell’oligarchia che da cinque secoli si sente proprietaria assoluta della nazione e delle sue risorse.
Tutto ciò, va ricordato, si è reso possibile anche per gli errori e le debolezze del Pt, per l’incapacità di farsi carico delle riforme strutturali di cui il Brasile ha bisogno per eliminare le grandi diseguaglianze e rendere accessibili a tutti i suoi cittadini i diritti politici, economici, sociali e culturali: riforma agraria, revisione della Costituzione e del sistema elettorale, riforma del codice del lavoro e della legge sulla comunicazione. Come pure di non essere stato in grado di isolare i fenomeni di corruzione all’interno del partito e di amministrazioni petiste, coinvolgendo dirigenti di ogni livello.
Queste debolezze, coniugate con gli effetti della crisi economica globale del 2007-8, hanno creato per i poteri forti le condizioni ideali per riprendere il pieno controllo del Paese. Disegnando il piano diabolico non più con l’uso di armi, repressione e centri di tortura - come si faceva nel secolo scorso - ma con un sistema più sofisticato e chirurgico: l’uso della giustizia. E con un’alleanza economico-sociale tra grandi proprietari terrieri, magnati dell’informazione, potere giudiziario corrotto, vertici delle sette evangeliche. Tutti uniti per spartirsi la torta del Brasile: deforestazione dell’Amazzonia in favore delle monocolture estensive (soia, canna da zucchero, mais, cotone,…), allevamento bovino per l’esportazione, liberalizzazione del mercato del lavoro riducendo diritti e salari, blocco della spesa sociale, privatizzazione dei servizi essenziali, svendita di asset strategici a multinazionali, rilancio dell’industria degli armamenti, repressione sociale e razziale. Tutto doveva tornare come prima.
Una strategia e un blocco sociale che hanno avuto il beneplacito, se non qualcosa di più, dell’interessata amministrazione di Washington, che non gradiva la visione internazionale e di integrazione regionale del Brasile di Lula, espressione più matura e visionaria della stagione del riformismo-bolivarismo-indigenismo-castrismo, alternativa al ruolo subordinato che, per l’amministrazione Usa, i Paesi a sud del Rio Grande dovrebbero sempre rispettare.
Ma grazie alla grande determinazione di Lula e del popolo brasiliano - che non ha creduto alla campagna di linciaggio mediatico - ed anche ad una vasta e continua mobilitazione internazionale come raramente si è potuto vedere, il cerchio del “golpe blanco” non si è chiuso, anzi si sta ritorcendo contro i suoi mandanti ed esecutori. Lula è tornato libero. Soprattutto nuovamente con pieni diritti civili, abilitato a svolgere attività politica. Libero di tornare a girare il Brasile per incontrare ‘o povo brasilero’, come ha sempre fatto. Ascoltandolo, come è abituato a dire lui stesso.
La storia del Brasile ricomincia da capo; non c’è tempo per pensare a ciò che è stato, occorre ripartire e pensare alle elezioni presidenziali del prossimo anno. Nella sua prima conferenza stampa dopo il verdetto del giudice Fachin, Lula ha voluto mandare un messaggio alla nazione, invitando tutti a rispettare le regole di protezione contro il virus, e denunciando l’ignoranza con cui il presidente Bolsonaro ha gestito l’emergenza sanitaria. Poi si è rivolto alla sua gente, dicendo che lui, uomo ultrasettantenne, ha l’entusiasmo e la forza di un giovane di 35 anni. Lula c’è, la storia ricomincia.