A suo modo, uno sciopero storico. Non solo perché è stato il primo che ha riguardato il servizio che Amazon, il colosso americano dell’e-commerce, svolge nell’area di Padova, Vicenza, Venezia e Treviso, cioè le tre province che sono servite dal magazzino di Amazon di Vigonza (Pd), ma soprattutto per l’eco che ha riscosso, non solo nella stampa locale ma anche in quella nazionale, addirittura facendo parlare di sé anche al di fuori dei confini nazionali. Tutto merito del nome Amazon, un autentico gigante in grado di schiacciare i diritti dei lavoratori, ma non di farlo in assoluto silenzio. Anzi. Questo è quel che hanno dimostrato circa un centinaio di lavoratori (su una platea di interessati di circa 400) e cioè che il nome Amazon è come un elefante dentro ad una vetreria di Murano: appena si muove fa rumore, e se ne accorgono in tanti.
“Avrebbero potuto essere anche la metà – dice Massimo Cognolatto, segretario generale della Filt Cgil di Padova – ma resto convinto che dello sciopero si sarebbe parlato lo stesso. E che siano stati circa un centinaio si fa presto a capire: erano quelli con un contratto a tempo indeterminato, vale a dire quelli che se lo potevano permettere. Durante il presidio, in maniera del tutto blanda e assolutamente senza tensioni, i lavoratori hanno spesso circondato i mezzi in uscita dei lavoratori che non scioperavano e andavano a fare le consegne. Non tutti, ma tanti hanno mostrato il volantino che noi della Filt Cgil avevamo fatto distribuire, facendo chiaramente capire che, se avessero potuto, avrebbero partecipato volentieri allo sciopero, perché ne condividevano le motivazioni”.
Parole che la dicono lunga su come la generale precarietà dei lavoratori costituisca un bacino inesauribile, da cui Amazon pesca coloro che le permettono ogni anno di macinare record su record in termini di fatturato. E che non si tratti di lavoratori direttamente assunti dall’azienda fondata da Bezos, bensì di driver che operano per aziende a cui Amazon ha affidato in appalto la consegna dei propri pacchi, non sposta di un millimetro la questione. Sempre di precari si tratta.
“In verità – dice Daniel Perta, funzionario della Filt Cgil di Padova – era da parecchio tempo che questi lavoratori volevano scioperare, vale a dire da quando hanno iniziato ad accorgersi che i loro carichi di lavoro ogni giorno aumentavano di un po’, passando dalle 60/70 consegne di circa due o tre anni fa, alle circa 110/130 attuali. Soprattutto quando si sono resi conto che in questo modo, parallelamente, aumentavano anche i rischi di provocare incidenti, e che questi erano completamente a loro carico, sia per quel che riguarda gli eventuali danni al mezzo, sia soprattutto alle persone, in questo caso con ripercussioni penali e processuali. Insomma: da un lato c’è un algoritmo che impone ogni giorno di aumentare il ritmo del proprio lavoro, dall’altro vi è l’assoluto rifiuto di Amazon di assumere la responsabilità dei rischi che questo comporta, scaricandola tutta sui lavoratori. Ecco, che molti l’abbiano scoperto è già un fatto importante”.
“Se non abbiamo fatto sciopero prima – aggiunge Romeo Barutta, segretario regionale della Filt Cgil Veneto – è stato perché Amazon e Assoespressi (la sigla datoriale a cui aderiscono le sei aziende che forniscono materialmente il servizio), in prima istanza, avevano chiesto di spostare la discussione su un tavolo regionale, facendoci chiaramente intendere che questo tipo di problemi venivano lamentati dai lavoratori di tutti i magazzini in Veneto. Quando eravamo ormai pronti per convocarlo, ci hanno detto di lasciar perdere perché adesso la trattativa la volevano fare a livello nazionale. A quel punto abbiamo capito che stavano facendo “melina”, e allora abbiamo deciso di rompere gli indugi e proclamare lo sciopero. Il successivo comunicato di Amazon, che sostanzialmente dice che “va tutto bene e che i lavoratori non hanno nulla di cui lamentarsi”, dimostra quali erano e sono i loro veri pensieri sulla questione delle condizioni dei lavoratori: semplicemente non interessano”.
Così si è arrivati al 15 febbraio, dove una cosa, tutto sommato, normale – ossia difendere i propri diritti e chiedere condizioni di lavoro più umane – è diventata straordinaria. È arrivata anche la solidarietà di Uni Global, la Federazione internazionale a cui aderiscono 900 sindacati provenienti da 140 paesi nel mondo. Difficile, alla prima prova, chiedere di più.