L’interesse delle piattaforme digitali come Uber è quello di utilizzare i lavoratori come se la piattaforma fosse un mero intermediario tra driver e cliente, simile ad un rapporto di agenzia, cosicché non vi sarebbero caratteristiche di subordinazione, rimanendo il lavoratore libero di accettare o meno la prestazione. Con sentenza del 21 febbraio scorso, la Suprema Corte inglese ha negato la fondatezza di questo tipo di rapporto tra Uber e i driver, dopo che anche le sentenze di primo e di secondo grado avevano affermato che agli autisti doveva riconoscersi la qualifica di workers e non di self-employers (autonomi).
Uno dei punti più importanti della sentenza è il riconoscimento della supremazia del dato fattuale sulla forma del contratto, concetto cardine anche della giurisprudenza italiana, che attribuisce allo svolgimento concreto della prestazione importanza preminente rispetto alla forma e al contenuto del contratto sottoscritto. Non sfugge l’importanza di tale impostazione, se si riflette un attimo sulla molteplicità delle tipologie contrattuali “inventate” nella legislazione italiana per aggirare gli obblighi del datore di lavoro a fronte di un rapporto di lavoro subordinato. I rapporti dei rider con le varie piattaforme della gig economy ne sono una lampante dimostrazione. Peraltro esistono ancora principi e regole inderogabili, nonostante i violenti attacchi padronali volti alla flessibilizzazione del rapporto di lavoro.
La sentenza della Corte inglese mette in luce le caratteristiche della prestazione lavorativa dei driver: questi dichiarano sull’app la loro disponibilità ad accettare corse e aspettano, i clienti prenotano una corsa e, tramite Gps, viene localizzata la loro posizione e il driver più vicino, che ha dieci secondi per accettare. Dopodiché il contatto tra cliente e driver è gestito dall’app di Uber: il percorso da seguire viene disposto dalla app (il driver se ne può discostare, ma in caso di critica da parte del cliente, il compenso, prefissato e gestito tramite l’app, viene ridotto).
Al termine della corsa viene chiesto al cliente di recensire il servizio secondo il principio del “cliente ha sempre ragione”: il driver non può avere nessun contatto diretto con il passeggero, né può replicare ad eventuali rimostranze, che rimangono all’interno della app e non sono rese note al driver, ma influiscono sul suo tasso di valutazione. Il driver può rifiutare la corsa (di cui non conosce la destinazione), ma anche ciò influisce sulla sua valutazione.
In sostanza, la piattaforma esercita un controllo pressante sul lavoratore, attraverso il numero di accettazioni e di rifiuti e attraverso il tasso di gradimento dei clienti. Quest’ultimo non serve all’utente per individuare la convenienza o la qualità di un servizio, ma alla piattaforma per operare una selezione interna. A un driver che abbia effettuato 200 corse è richiesta una valutazione media di 4.4 (scala da 1 a 5); se non viene raggiunta, viene offerta al driver un’ulteriore chanche tramite i cosiddetti “interventi di qualità”, se però la performance non viene rivalutata, l’account del lavoratore viene disattivato, cioè il lavoratore viene licenziato.
Questo meccanismo si presta a palesi discriminazioni: l’utente può non aver gradito l’autista perché di etnia diversa o perché donna ecc.. E questo, per i principi espressi anche dalla Corte Europea, non può evitare al datore di lavoro di tutelare il lavoratore da ogni forma di discriminazione, mentre nel caso di Uber proprio la discriminazione diventa la leva con la quale scardinare la posizione del driver.
La Corte inglese ha dunque riconosciuto alcuni dei diritti fondamentali del lavoro subordinato: il giusto compenso, l’orario di lavoro, la tutela antinfortunistica, il periodo di riposo annuale retribuito. Ma non ha tipizzato il rapporto come vero e proprio rapporto di subordinazione, negando così una tutela fondamentale quale quella dal licenziamento; il driver viene definito worker ma non employee (dipendente).
La soluzione data dalla Corte inglese, pur nel solco di una giusta regolamentazione dei rapporti gestiti tramite piattaforme virtuali, tuttavia lascia i lavoratori in un limbo ibrido, non affrontando la fondamentale tematica della tutela del posto di lavoro.
Ritorna quindi alla mente la sentenza della Corte di Appello di Torino (26/2019) che adottò la stessa soluzione, poi confermata dalla Corte di Cassazione (sentenza 1663/2020), che peraltro non poté pronunciarsi sul diritto alla tutela contro i licenziamenti illegittimi, perché la sentenza di merito non fu impugnata sul punto.
Mentre il Tribunale di Palermo, con la sentenza 3570 del 24/11/2020, ha portato, dopo un’attenta disamina della sentenza della Corte di Cassazione e della giurisprudenza della Corte Europea, alla logica conseguenza che il lavoro dei driver non può che essere, per le sue intrinseche caratteristiche, un rapporto di lavoro subordinato e come tale assistito da tutte le garanzie accordate dalla legislazione, compresa la tutela del posto di lavoro.