Nella sua piena autonomia la Cgil giudica i governi per le politiche che attuano. E così sarà anche per il governo Draghi, sostenuto da un’amplissima maggioranza parlamentare, di inedita composizione anche per un Paese noto per il suo trasformismo.
La nostra autonomia non ci impedisce di dare giudizi sulle svolte politiche in atto e sul programma presentato dal presidente Draghi: la fine del governo Conte II, voluta per un disegno politico di cui Matteo Renzi è stato lo spregiudicato esecutore, ha ottenuto il risultato di un governo più a destra, fortemente condizionato dal capitale e dall’alta finanza, subordinato alla parte conservatrice dell’establishment europeo.
Questo governo di “unità nazionale”, lo confermiamo, non ci rappresenta. Entrano a pieno titolo gli interessi degli imprenditori del nord e il cambiamento da noi indicato è ancora più difficile da conquistare.
Il discorso programmatico di Draghi, prevalentemente metodologico, ha confermato il senso dell’operazione politica: blindare nell’interesse delle imprese e del vero direttorio europeo (Germania e Francia) l’utilizzo dei fondi del Next Generation Eu, in larga parte – non dimentichiamolo – prestiti, seppur mutualizzati a livello dell’Unione.
La composizione del governo, non di certo neutra, mantiene saldamente nelle mani di “tecnici” del mondo finanziario e industriale i ministeri-chiave per l’attuazione del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” e, pur nella minuziosa applicazione del manuale Cencelli, scegliendo all’interno stesso delle correnti di partito, rafforza forse anche più delle aspettative il peso e il ruolo di Forza Italia e della Lega.
Ancora una volta viene negata la pari rappresentanza di genere nella compagine ministeriale. Il tragico ritorno di Renato Brunetta alla Pubblica amministrazione è un insulto alle lavoratrici e ai lavoratori, e non lascia intravedere niente di buono per una delle riforme centrali che affiancheranno la gestione del Ngeu. Il ministero della Disabilità costituisce una vera e propria istituzionalizzazione di una pratica di segregazione. I capitalisti del nord la fanno da padroni con Giorgetti al Mise e Garavaglia al Turismo – che diventa ministero con portafoglio – mentre Gelmini al ministero delle Autonomie rafforzerà la spinta autonomistica delle regioni settentrionali.
Nel discorso programmatico, insieme a tante cose scontate, è eloquente quello che manca, a partire da un nuovo ruolo dello Stato in economia e dalla necessità che il Pnrr crei posti di lavoro stabili e di qualità per giovani, donne, Mezzogiorno. Non è sufficiente citarli tra le prime vittime – insieme alle imprese – della crisi economica e sociale dovuta alla pandemia.
Per il sindacato si apre una fase molto delicata, nella quale è necessario mantenere fermi tutti gli obiettivi di cambiamento, di risposta all’emergenza sociale e insieme di radicale trasformazione che sono stati avanzati in questi mesi e anni e, per la Cgil, nel Piano del Lavoro e nella Carta universale dei Diritti. La Cgil può e deve, possibilmente unitariamente, essere protagonista e non spettatrice della sfida al cambiamento, forte e coerente con le sue elaborazioni strategiche, le scelte del congresso e le sue piattaforme sostenute dai lavoratori e pensionati, a partire dal ripristino dell’articolo 18, il superamento della legge Fornero e la tassazione delle ricchezze come base per una riforma generale del fisco.
Tutto questo senza cedere alle sirene di nuovi patti consociativi, o “fra produttori”, di cui non ci sono i minimi presupposti, mentre avremo bisogno di maggior confronto con lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, giovani e disoccupati, per le mobilitazioni necessarie a sostenere i nostri obiettivi.
La situazione pandemica rimane grave e il quadro politico arretra. Su come se ne uscirà e chi pagherà si gioca lo scontro politico e sociale fra capitale e lavoro e fra la sinistra e la destra del paese. Ora più che mai, al lavoro e alla lotta.