Sono passati i tempi del Venezuela di Chavez. Quando il leader bolivariano aveva fatto sperare il popolo venezuelano in un futuro migliore fatto di indipendenza dagli Stati Uniti, nazionalizzazione delle ingenti risorse petrolifere, con una lotta alle disuguaglianze sociali senza precedenti. Una politica che aveva avuto come conseguenza un grande consenso alla rivoluzione da parte della popolazione.
Al contrario, la bassa partecipazione alle urne in occasione delle ultime elezioni parlamentari del 3 dicembre dimostra a 360 gradi la crisi complessiva del paese latino-americano e della sua classe politica. Il presidente Maduro, successore di Chavez, ha vinto con il suo Partito socialista unido de Venezuela (Psuv), come era prevedibile, con il 67,6% dei voti che consentiranno al capo dello Stato di controllare anche l’Assemblea nazionale. Ma con un’affluenza limitata al 31% dell’elettorato, dato giustificato solo in parte dal boicottaggio della destra estrema di Juan Guaido, l’allora presidente di turno del Parlamento. Guaido ha perso questo ruolo in conseguenza appunto dell’assenza alla competizione elettorale. Personaggio quest’ultimo che capeggia un’area politica divisa e corrotta, sostenuto sia da Washington, che continua a imporre a Caracas pesanti sanzioni economiche, che da Bruxelles, malgrado sia stato travolto da scandali di ogni genere.
Ma la bassa affluenza alle urne non è dovuta solo al boicottaggio della destra. È stata causata anche dalla crisi economica seguita alla caduta del prezzo del petrolio, in un’economia basata prevalentemente sulla produzione dell’oro nero, e da una deriva “liberista” grazie alla quale potrebbero essere ceduti ai privati i proventi dell’industria petrolifera, che giocherebbero una parte importante nella gestione del capitale statale. Senza dimenticare una pericolosa tendenza autoritaria che Chavez aveva intelligentemente evitato.
Tornando ai numeri, è utile ricordare che nel voto del 2015, quando tutta la destra si accaparrò la maggioranza dell’Assemblea nazionale, la partecipazione era stata del 73%. Oggi solo la destra moderata Alianza Democrática (giunta seconda con il 17,95% dei voti) e Venezuela Unida (terza con il 4,19%) hanno partecipato alla competizione elettorale.
A peggiorare la situazione del fronte bolivariano c’è stata anche la perdita dell’ala sinistra dell’alleanza costituita dall’Alternativa Popular Revolucionaria (Apr) che si è presentata all’appuntamento elettorale come forza politica indipendente insieme al Partito comunista venezuelano.
Le elezioni sono state supervisionate da pochi osservatori internazionali, che ne hanno confermato la regolarità. Tra questi l’ex primo ministro spagnolo Luis Zapatero, rappresentante di un paese che da sempre ha dei rapporti privilegiati nei confronti dell’America Latina e che con l’attuale premier Pedro Sanchez ha riconosciuto Maduro come capo dello Stato e Juan Guaidò unicamente come leader dell’opposizione, suscitando così una irritata reazione da parte della ormai decaduta amministrazione Trump, nella speranza che il nuovo inquilino della Casa Bianca Biden dia vita ad una politica più equilibrata nei confronti di tutto il continente latinoamericano. Zapatero ha invitato l’Europa a far uscire dall’isolamento Caracas, finora sostenuta solo dalla Russia, dalla Cina e dalla Turchia.
Insomma l’Ue – secondo il leader spagnolo – deve ricoprire quel ruolo di mediazione, così come ha tentato di fare Papa Francesco, che il vecchio continente non riesce ad assumere di fatto in qualsiasi difficile scenario mondiale. Ruolo più che mai necessario in un momento così difficile come quello caratterizzato dalla pandemia che, secondo discutibili dati del governo, avrebbe provocato lo scorso anno circa duecento morti e oltre duemila contagiati.