La fine della legislatura e la fissazione delle elezioni politiche il 25 settembre sono intervenute in un periodo solitamente dedicato all’adempimento degli atti della legislazione di bilancio per l’anno successivo. Questo ha provocato una compressione dei tempi, durante i quali si prevede la presentazione dei vari documenti indispensabili a definire le scelte di politica economica e finanziaria per il nostro paese.
Un simile affastellamento non ha certo contribuito alla chiarezza. Cosicché alcune scelte e propositi dichiarati del governo sono quasi passati in sordina, e sarà bene invece che l’opposizione accenda i riflettori su quanto sta accadendo. La Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef), approvata dal Consiglio dei ministri il 4 novembre, non fa altro che rivedere e integrare quella decisa il 28 settembre dal precedente governo. La nuova Nadef presenta una novità rispetto alle dichiarazioni fatte prima da Draghi e poi dalla Meloni in campagna elettorale: lo scostamento di bilancio. Nella Relazione al Parlamento si legge infatti nelle prime righe che “il Governo intende ricorrere alla procedura prevista … con cui richiedere l’autorizzazione al ricorso all’indebitamento” che quindi eleverebbe il deficit del 2022 al 5,6% (dal 5,1%), al 4,5% nel 2023 (in luogo del 3,4%), portandolo al 3,7% e al 3% nel 2024 e nel 2025. Il tutto previo parere della Commissione europea – anche da ciò si capisce l’improvviso filoeuropeismo della Meloni – e l’approvazione a maggioranza assoluta del Parlamento.
Naturalmente la giustificazione starebbe nelle misure da assumere per fronteggiare il caro energia. Ma i 21 miliardi previsti per il 2023 appaiono del tutto insufficienti allo scopo dichiarato, a meno che non si abbia una visione ottimistica del tutto fuori luogo, vista anche la permanenza della guerra e l’assenza di iniziative serie per arrivare a un cessate il fuoco sia da parte dei diretti belligeranti che della Ue, della Nato e, last but not the least, degli Usa, e considerando il comportamento delle banche centrali votate all’innalzamento dei tassi per frenare l’inflazione a scapito dell’economia reale.
Del resto il decreto “aiuti quater” varato il 10 novembre chiarisce la direzione di marcia del governo. Oltre agli interventi contro il caro-energia e alla riduzione del superbonus edilizio dal 110% al 90%, il decreto - a quanto si sa, visto che alla chiusura di quest’articolo non è ancora stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale - autorizza le trivellazioni in mare alla ricerca del gas tra le 9 e le 12 miglia dalla costa, e ci infila anche l’innalzamento a 5.000 euro del tetto del contante, in modo da rendere più arduo il tracciamento dei pagamenti e quindi la lotta all’evasione fiscale.
Invece la tassazione degli extraprofitti delle imprese si ferma al 33%, quando sarebbe stato logico portarla almeno al 90%, dal momento che si tratta di guadagni realizzati grazie alla differenza del prezzo pagato al momento dell’acquisto rispetto a quello della vendita.
Che il tema fiscale stia particolarmente a cuore alle destre è cosa nota. Infatti le dichiarazioni di esponenti di governo anticipano alcune direttrici che dovrebbero informare i prossimi provvedimenti. Una corposa relazione di esperti, allegata alla precedente Nadef e resa nota a fine settembre, aveva dimostrato che il tax gap, cioè la propensione alla fuga dal fisco (misurata dalla distanza fra gettito potenziale e quello reale) era aumentato al 68,7%, il massimo storico, fra gli autonomi e le imprese. Ma il governo attuale ha in animo di estendere il tetto della tassa forfettaria del 15% (una forma di flat tax) dai 65mila euro agli 85mila, inglobando così circa 2 milioni di partite Iva, con una maggiore perdita di gettito fiscale per lo Stato.
Non solo, ma il governo intende venire incontro ai propositi di Salvini di introduzione di una flat tax anche se per ora non generalizzata. Si tratta della proposta di una “tassa piatta incrementale” con esclusione dei lavoratori dipendenti, per i quali si penserebbe ad una tassazione più leggera dei premi di produttività, ma allo stesso tempo la sparizione di un terzo della riduzione del cuneo fiscale che andrebbe a favore delle aziende.
La cosa funzionerebbe così: sulla parte del reddito che è aumentato rispetto al migliore nei tre anni precedenti si applicherebbe la tassazione del 15%. Si parla di una misura sperimentale, ma è rivelatrice della tendenza anticostituzionale su cui si muove il governo Meloni. Infatti la sua ratio è quella di premiare fiscalmente chi è riuscito a guadagnare di più. Il contrario esatto del principio della progressività. Non solo ma si realizzerebbe una violazione patente del principio dell’equità “orizzontale”, dal momento che due soggetti aventi lo stesso reddito finirebbero per pagare al fisco cifre diverse a seconda dei tempi di realizzazione dei loro guadagni. Se ci aggiungete un nuovo ritorno dei capitali illegalmente all’estero senza pagare pegno il quadro è completo. Quasi.