L’occasione per tornare a ridiscutere, a quasi cinquant’anni dalla sua uscita, uno dei testi fondamentali dell’operaismo tedesco, “L’altro movimento operaio. Storia della repressione capitalistica in Germania dal 1880 a oggi” (1974), potrebbe essere rappresentata dagli 80 anni del suo autore: Karl Heinz Roth. In realtà, sarebbe opportuno tornare ad affrontare ciò che il nome di Roth e il titolo del suo libro nascondono, ossia il contributo determinante di Elisabeth Behrens attraverso la stesura del terzo capitolo, “Lotta operaia e contrattacco capitalistico sotto il Nazionalsocialismo”.
Un ritorno dettato non tanto dal bisogno di celebrare un’opera che ha segnato il dibattito teorico-politico degli anni ‘70 (le edizioni “aut aut” gli dedicarono nel 1978 un numero monografico curato da Maria Grazia Meriggi), quanto dal desiderio di capire le modalità operative con cui il capitalismo è intervenuto per spezzare la solidarietà internazionale tra gli operai e, di conseguenza, la possibilità di alimentare un sincero e disinteressato sentimento di accoglienza tra sfruttati e subalterni del mondo. Lo stesso che Engels aveva trovato nella classe operaia inglese nel 1844 e che i politici anglosassoni neoliberisti tra gli anni ‘70 e gli ‘80 del Novecento, dando seguito alle esigenze di un’industria che non aveva più bisogno della mano d’opera nera fatta emigrare dalle colonie, avevano pensato bene di distruggere col virus del razzismo nazionalista (vedi Sinistra Sindacale numero 16/2022). Quello che ora mi interessa affrontare è la forma pura, diciamo così, di questo meccanismo.
Come dimostra la ricerca di Behrens, la necessità di ricorrere al lavoro forzato si era imposta alla Germania non solo per far fronte alle esigenze produttive dell’industria bellica per supplire alla mancanza di mano d’opera tedesca impiegata sui fronti di guerra, ma più in generale per realizzare il suo progetto di nazificazione dell’Europa che implicava, tra le varie cose, quello di colonizzare la Polonia e la Russia per farne “una riserva inesauribile di forza lavoro”.
Prima di arrivare a tutto questo, però, ad essere deportati in Germania furono prigionieri di guerra inglesi, francesi, belgi, italiani, cechi, per un totale di circa 6 milioni di lavoratori coatti nel solo 1942. Si capisce che, con una massa operaia internazionale di questa consistenza, e in seguito, con la presenza dei lavoratori sovietici, i nazisti dovevano assolutamente evitare la creazione di una solidarietà basata sulla comune condizione di sfruttamento disumano, tale da portare a una rivoluzione sul proprio territorio.
Cosa fecero? Innanzitutto, staccarono gli operai tedeschi, oppressi fino a poco prima, da tutti gli altri, giocando sia sul sentimento di superiorità razziale che sull’innalzamento dei salari e su di un loro rimansionamento che li portava a diventare sorveglianti, repressori e aguzzini degli stranieri. Poi gerarchizzarono quest’ultimi in base a ferrei criteri nazionalistici: “Dopo le operaie e gli operai tedeschi venivano cinque categorie di operai: ‘gli stranieri in generale, i polacchi, gli operai dell’Est, i prigionieri di guerra e gli ebrei’”. Il risultato che ottennero fu quello di utilizzare “consapevolmente le differenze nazionali fra i popoli dell’Europa orientale” e di crearne “di nuove per impedire, secondo il vecchio principio del ‘divide et impera’, che si verificasse un processo di solidarizzazione fra le categorie più sfruttate”.
Visto nella sua estrema violenza e spietatezza, l’uso del concetto di nazione fatto dai nazisti, per gerarchizzare le varie nazionalità degli operai deportati in Germania dal 1939 al 1945, non può non apparire come il modello originario tanto delle discriminazioni divisive imposte all’interno della classe operaia intesa nella sua universalità, quanto del legame che tiene avvinta in un abbraccio mortale la nazionalità degli operai discriminatori agli interessi del capitalismo della loro nazione.
Un modello che, nelle sue varianti addomesticate elaborate dagli imprenditori europei dal Secondo dopoguerra in poi, si è dimostrato vincente, soprattutto in quei paesi come Francia e Inghilterra, già educati dal loro passato colonialista a trattare con forza lavoro immigrata, poi, più tardi, in Italia, educata invece dalla razzializzazione intra-nazionalista degli emigranti del sud nei centri industriali del settentrione.
L’insegnamento da trarre da una rinnovata lettura della Behrens non consiste tanto nell’andare a contare quante volte sia pronunciata la parola nazione nei discorsi della destra radicale al governo, o di andare a vedere la sistematica sostituzione della parola paese con nazione ogni qualvolta i ministri aprano bocca, quanto di valutare le conseguenze che producono tutte le prese di posizione nazionaliste di qualsiasi partito o sindacato sulla composizione della classe lavoratrice, sulla sua organizzazione e, cosa più importante, sulla sua capacità di ospitare lo straniero e sulla disponibilità emotiva a sentirsi solidale con lui, nel mondo come nel luogo di lavoro.