Se ne è discusso a settembre per quattro giorni nella sede universitaria di architettura di Venezia e nel Climate Camp al Lido.
In una intervista pubblicata sulla “Monthly Review”, Dennis Meadows, scienziato americano e professore emerito di gestione dei sistemi, uno degli estensori del famosissimo rapporto “The Limits of Growth”, di cui ricorre il 50° anniversario, ha dichiarato: “La crescita si fermerà, per un motivo o per l’altro”. Serve ancora spiegare perché? O basta alzare lo sguardo e vedere cosa sta accadendo all’atmosfera, ai mari, alle foreste, ai ghiacciai, al suolo, al nostro stesso organismo?
Il cambiamento climatico è solo uno dei sintomi del collasso ecologico, della distruzione dello spazio vitale, del biocidio in atto. La massa antropogenica costituita dagli stock di materiali solidi incorporati e accumulati nei manufatti (edifici, strade, macchinari, oggetti di consumo, ecc.) ha superato in peso il volume della biomassa vivente animale e vegetale complessiva (“Nature”, Vol. 588, 2020). La produzione di oggetti ha superato le 30 gigatonnellate all’anno, come se ognuno di noi impiegasse ogni settimana una quantità di materiali (calcestruzzo, inerti, metalli, legno, ecc.) pari al proprio peso corporeo. La massa globale di plastica in circolazione (8 Gt) è doppia della massa complessiva di tutti gli animali viventi (4 Gt). C’è più (micro)plastica nei mari che pesci (in peso).
Vogliamo continuare? La concentrazione di Co2 in atmosfera (421 parti per milione) è pari a quella che esisteva 4,5 milioni di anni fa, ma allora le temperature medie erano di 6 gradi maggiori e i mari erano più alti di 20 o 30 metri. Il livello medio dei mari è cresciuto di 10 centimetri nel corso degli ultimi 30 anni. Con questi “estremi termici” gli scienziati ipotizzano che il 32% della superficie terrestre diventerà arida e ritengono che a fine secolo il 18% della Terra non sarà più abitabile per due miliardi di persone. Dove andranno? Il tasso di estinzione delle specie viventi (animali e vegetali) è pari a quello registrato 65 milioni di anni fa quando un meteorite colpì il pianeta e – con i dinosauri – scomparve il 75% delle specie animali. In due secoli sono stati abbattuti un terzo degli alberi delle foreste primarie. La fratturazione delle foreste favorisce il “salto di specie” (spillover) di virus (i virologi ne stimano 500mila specie) capaci di trasmettere nuove patologie agli esseri umani (zoonosi). Cos’altro deve accadere per convincerci a cambiare la traiettoria suicida imboccata dalla civilizzazione occidentale?
La riduzione degli impatti antropogenici attraverso la diminuzione dei flussi di materia e di energia impiegati nei cicli produttivi e di consumo è semplicemente una necessità. In particolare un obbligo per i paesi più “avanzati” e con maggiori responsabilità storiche (“debito ecologico” accumulato dalla rivoluzione industriale ad oggi). Il punto, quindi, non è “se” decrescere (cioè: diminuire i prelievi di materie prime, l’occupazione di suolo, le emissioni, i rifiuti), ma “come” riuscire a vivere bene rimanendo nei limiti/soglia geo-bio-fisici del pianeta; in quale modo riuscire a soddisfare pienamente i bisogni e i desideri autentici (buen vivir) di tutti gli abitanti della Terra, senza intaccare le basi naturali portanti della vita. È qui che dovrebbero entrare in azione la politica, l’economia ecologica, la cultura.
Se ne è discusso a settembre per quattro giorni nella sede universitaria di architettura di Venezia (www.venezia2022.it) e nel Climate Camp al Lido. Esperti da tutto il mondo (Vandana Shiva, Amaia Perez Orozco, Jason Hickel, Silvia Federici, Jak Ilham Rawoot, Mario Castillo Quintero e molti altri) hanno animato quindici tavoli di lavoro sui vari aspetti della “conversione ecologica”. Più di una semplice transizione dal fossile alle rinnovabili, più di una più equa distribuzione delle ricchezze e delle possibilità di accesso alle risorse naturali e ai mezzi di produzione, più di un cambiamento degli stili di vita individuali: è necessaria una trasformazione radicale dei modi di produzione e dei sistemi socioeconomici oggi dominanti.
Ma non basta ancora. È stato detto che è difficile immaginare di riuscire a ristrutturare le basi economiche e i comportamenti umani senza che vi sia una contestuale presa di coscienza e condivisione di un sistema di valori morali ed etici diversi da quelli oggi dominanti, senza un cambio di mentalità che modifichi il modo di essere e di pensare sé stessi nel rapporto con gli altri e con la natura. Non è impresa facile sostituire l’avidità, l’individualismo competitivo, l’ossessione per la produttività e il consumismo con la collaborazione, la sobrietà, l’empatia con il vivente, la solidarietà. Non si tratta di “guarire il pianeta” (non ha nulla che non vada bene), ma di guarire il malanimo umano che lo sta distruggendo. C’è una dimensione culturale e spirituale, una rivoluzione antropologica, che va portata avanti al pari della trasformazione delle strutture economiche e dei sistemi energetici e produttivi.
Nel concreto le politiche di una vera transizione ecologica dovrebbero essere basate su tecniche dette “Natur Base Solution”: riforestazione e “rewilding” (ritorno allo stato naturale, come quella sostenuta dal botanico Stefano Mancuso), generazione distribuita di energia da fonti rinnovabili (comunità energetiche), agroecologia (ritorno alla terra e filiere corte), tracciabilità delle produzioni dei beni di consumo (requisiti sociali e ambientali), mobilità dolce, edifici passivi, città di quartieri e quartieri a dimensione di villaggio, case della salute e medicina di comunità, welfare di prossimità, uso condiviso dei beni comuni (materiali e cognitivi), aule a cielo aperto nelle scuole, da una parte. Dall’altra: lotta agli sprechi, messa al bando della obsolescenza programmata, chiusura delle fabbriche di armi.
Così contestualizzata la transizione ecologica rappresenta lo spazio dell’odierno conflitto sociale per realizzare una nuova forma di civiltà, liberata dai condizionamenti eteronomi del capitale, e l’inizio della nuova era dell’Ecocene. L’idea della decrescita (vedi, Kallis, Paulson, D’Alisa, Demaria, “Che cosa è la decrescita oggi”, Edizioni Ambiente, 2022) può costituire quindi un terreno propizio per far convergere le lotte sui diritti, superando la separazione tra i diritti cosiddetti “economici”, “civili”, “ambientali”. Le dimensioni socioeconomiche ed ecologiche sono facce di uno stesso poliedro. Benessere individuale, equità sociale, sicurezza e giustizia ambientale sono inseparabili.
A volerli dividere sono i disegni disarmonici (coloniali, classisti, sessisti, razzisti, specisti) di dominazione del mondo che i gruppi al potere intendono imporre per riuscire a sottomettere le popolazioni inferiorizzate (etnie indigene, donne, masse impoverite private degli strumenti della sussistenza, animali). Di questa strategia fa parte il gioco cinico portato avanti da sempre dai ceti della borghesia imprenditoriale (“datori di lavoro”) di contrapporre il diritto al lavoro al diritto ad un ambiente salubre e sicuro. Un doppio ricatto mirato a costringere i lavoratori ad accettare condizioni di lavoro e di vita di cattiva qualità. L’unico modo per uscire da questa tenaglia è non separare mai le lotte per i diritti. Una questione antica, tutt’ora irrisolta, che sta di fronte al movimento operaio e dei lavoratori, da una parte, e a quello ambientalista, dall’altra, che al convegno di Venezia è stata affrontata sia negli aspetti teorici, sia in quelli pratici, in più di un gruppo di lavoro.
Sul piano teorico negli ultimi anni la letteratura e le proposte politiche si sono molto sviluppate grazie a pensatori di ispirazione marxiana, come Johan Bellamy Foster, direttore della Monthly Review, Michael Lowy (autore di “Ecosocialismo”, Ombre corte 2020) e Ian Angus (autore di “Anthropocene”, Asterios 2019).
Ha scritto Serge Latouche, principale ispiratore del pensiero della decrescita: “La decrescita può essere considerata come un ‘ecosocialismo’, soprattutto se per socialismo si intende, con André Gorz, ‘la risposta positiva alla disintegrazione dei legami sociali sotto l’effetto dei rapporti mercantili e di concorrenza, caratteristici del capitalismo’”.
Ma la strada della convergenza “rosso-verde” sembra essere ancora lunga. Nonostante le profetiche intuizioni di Marx sulla “frattura metabolica” (la relazione fra l’essere umano e la natura mediante il lavoro) provocato dal modo di produzione capitalista, i marxisti fanno fatica ad accettare l’idea di un “socialismo senza crescita”, ovvero di una (auto)limitazione delle possibilità espansive delle forze produttive, tantomeno oggi che i bisogni primari di due terzi dell’umanità non sono ancora stati conquistati. Dall’altra parte gli obiettori della crescita - e, con essi, mi assumo l’arbitrio di includere i movimenti indigeni, contadini, delle “altre economie” solidali e trasformative - fanno fatica a pensare che i grandi apparati tecnoindustriali centralizzati – fossero anche azionati da energie rinnovabili - possano essere piegati ad una logica di sostenibilità ambientale e giustizia sociale. Il confronto non è nuovo e rimane aperto (ricordiamo il contributo di autori italiani militanti come Giorgio Nebbia, Laura Conti, Virginio Bettini, oltre a Alex Langer) ma sta inevitabilmente ritornando di grande attualità.